È stata una delle carte costituzionali più all’avanguardia d’Europa; venne promulgata il 3 luglio del 1849 dalla loggia del Campidoglio, quando le truppe francesi del generale Oudinot erano già in città, alle mura del Gianicolo e l’esperienza rivoluzionaria stava per concludersi nel più tragico dei modi.

La Costituzione della repubblica romana è stata l’espressione più alta di un’avventura politica straordinaria, il punto più avanzato del Risorgimento, un laboratorio di idee che ha fecondato e ispirato i processi democratici in tutto il vecchio continente. Sessantanove articoli racchiusi negli otto titoli e nelle disposizioni transitorie che contengono in embrione i principi fondamentali delle democrazie moderne, dalla separazione tra Stato e Chiesa, al suffragio universale, all’abolizione della pena di morte. Concetti espressi in uno stile limpido e intelligibile come spesso accade nei passaggi necessari della Storia.

La natura laica della repubblica e il suo rapporto con il potere spirituale è delineata nell’articolo 7: «Dalla credenza religiosa non dipende l’esercizio dei diritti civili e politici». Vengono così aboliti i tribunali ecclesiastici e confiscati i beni del clero.

Evidente la filiazione con i principi della Rivoluzione francese, resi espliciti nel titolo secondo: «Il regime democratico ha per regola l’eguaglianza, la libertà, la fraternità. Non riconosce titoli di nobiltà, né privilegi di nascita o casta». Il rinnovamento sociale si concretizza in una coraggiosa riforma agraria che prevedeva la concessione di terre in affitto perpetuo alle famiglie meno abbienti. Mentre prende corpo il richiamo al popolo-nazione in un’accezione inclusiva che chiamava a partecipare minoranze storicamente perseguitate, come gli ebrei costretti dal papato a vivere nel ghetto, da cittadini di serie b. Siamo di fronte a un patriottismo anti-nazionalista di chiara matrice mazziniana, come viene poi tratteggiato nel titolo quarto: «La Repubblica riguarda tutti i popoli come fratelli: rispetta ogni nazionalità: propugna l’italiana». Di grande modernità anche l’orizzonte federalista, sempre di provenienza mazziniana, del titolo sesto: «I Municipii hanno tutti eguali diritti: la loro indipendenza non è limitata che dalle leggi di utilità generale dello Stato».

Uno dei paradossi della Costituzione romana sta nella sua “temporalità differita”, ovvero nell’attuazione che ne precede la scrittura, un approccio empirico dovuto naturalmente alle circostanze tumultuose in cui è nata la repubblica, con la fuga del Papa a Gaeta e la violenta reazione di Francia, Austria e regno borbonico che stroncarono l’inaudita esperienza rivoluzionaria di quella «schiera di forsennati» per impiegare le parole del pontefice.

La sua brevissima vita impedì il confronto materiale con la realtà storica dell’Ottocento europeo, ma il suo valore simbolico e ideale ha influenzato generazioni di patrioti repubblicani e soprattutto ha illuminato un’alternativa concreta alla monarchia, anche nella sua forma liberale e costituzionale che segnò il corso politico dell’Italia post-unitaria fino al secondo dopoguerra.

La Carta del 1849 in tal senso è la cristallizzazione di una “fuga in avanti”, di una scommessa impossibile per imprimere alla nostra storia nazionale un corso differente. Dopo la Roma dei Cesari e quella dei Papi, nella mente dei suoi fautori la “terza Roma” sarebbe stata quella della sovranità popolare, dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge senza distinzione di classe, nell’ottica di promuovere «il miglioramento delle condizioni morali e materiali di tutti i cittadini» (titolo terzo). Le analogie con la Costituzione italiana del 1948 sono in tal senso impressionanti.

Come scrisse lo storico britannico Bolton King «La vittoria dei repubblicani avrebbe fatto sorgere in Roma un’era nuova: ma il valore e la saggezza a nulla valsero, e la città fu risospinta indietro». L'ancien régime in effetti aveva ancora filo da tessere, i movimenti di liberazione, dai liberali moderati ai socialisti rivoluzionari, avrebbero dovuto attendere ancora diversi decenni per salire sul palcoscenico della Storia e la stessa indipendenza nazionale si realizzerà in un contesto sociale e politico ancora segnato da disuguaglianze enormi.

Uno degli aspetti più interessanti nella genesi della repubblica romana è la sua leadership, affidata ai triunviri Giuseppe Mazzini, Carlo Armellini e Aurelio Saffi, tutti e tre avvocati. Se la formazione giuridica di Mazzini ha rappresentato appena un accenno nella sua palpitante battaglia contro i privilegi di clero e aristocrazia, la professione forense è stata una guida costante nell’azione di Armellini e Saffo, legali di grande cultura chiamati a tradurre nero su bianco i principi che hanno costituito l’avventura romana. In particolare Carlo Armellini, il più anziano dei triumviri (aveva 72 anni), considerato all’epoca una specie di principe del foro: divenne famosissimo nel 1833 dopo aver vinto il processo (che durò tre anni) per dividere l’eredità del marchese Lovatelli, difendendo contro le pretese del principe Orsini i diritti di successione di un figlio segreto ma riconosciuto dal nobile.

Fine giurista, Armellini è anche l’unico dei tre triumviri ad aver partecipato materialmente alla stesura della Carta del 1849 per le sue profonde conoscenze di diritto costituzionale. Di idee liberali e moderate, si sposta progressivamente su posizioni radicali allontanandosi in modo definitivo da Papa Pio IX nonostante le minacce di scomunica.

Già deputato del regno di Sardegna, il trentenne Aurelio Saffi, dopo un’effimera e giovanile speranza nei confronti delle prime e ingannevoli iniziative riformatrici del Papa, era diventato un mazziniano tra i più convinti, avvocato di grido, rispetto ad Armellini aveva un profilo più “politico”, che lo porta a ricoprire per poche settimane il ruolo di ministro dell’interno della repubblica. Anche se non partecipa direttamente alla scrittura della Costituzione, il contributo dell’avvocato Saffi sarà centrale per conoscenza del diritto e passione rivoluzionaria.

L’indomita Repubblica romana cade di fronte alla potenza militare dei suoi tanti nemici, ma il suo lascito, ignorato dalla nostra storiografia per oltre un secolo, sarà enorme.

Ormai certo della sconfitta, con i soldati di Oudinot che avevano sfondato a Porta San Pancrazio, il 5 luglio Mazzini pronunciò un memorabile discorso: «Romani! La forza brutale ha sottomesso la vostra città; ma non mutato o scemato i vostri diritti. La repubblica romana vive eterna, inviolabile nel suffragio dei liberi che la proclamarono, nella adesione spontanea di tutti gli elementi dello Stato, nella fede dei popoli che hanno ammirato la lunga nostra difesa, nel sangue dei martiri che caddero sotto le nostre mura per essa. Tradiscano a posta loro gl’invasori le loro solenne promesse. Dio non tradisce le sue. Durate costanti e fedeli al voto dell’anima vostra, nella prova alla quale Ei vuole che per poco voi soggiaciate; e non diffidate dell’avvenire. Brevi sono i sogni della violenza, e infallibile il trionfo d’un popolo che spera, combatte e soffre per la Giustizia e per la santissima Libertà. I vostri padri, o Romani, furon grandi non tanto perché sapevano vincere, quanto perché non disperavano nei rovesci. In nome di Dio e del popolo siate grande come i vostri padri. Oggi come allora, e più che allora, avete un mondo, il mondo italiano in custodia» .