«Senza avvocati la Giustizia muore e, senza Giustizia, il Paese muore». Quello dell’avvocatura è un urlo di dolore. Distanziati, con i codici in mano, le toghe di tutta Italia hanno protestato, abbandonando i loro Codici sulle scalinate dei palazzi di Giustizia e rivendicando il diritto a far ripartire i processi, in un’Italia che rimane in stand by solo nei luoghi simbolici dello Stato di diritto. Riparte tutto, perfino il calcio, ma i tribunali rimangono luoghi inaccessibili e i diritti materia sospesa. Da Genova (dove i codici sono finiti anche nei cassonetti) a Bari (dove già erano state consegnate le chiavi degli studi), passando per Agrigento e Trani, tutti hanno urlato il proprio dissenso. Simbolo della protesta il flash mob di piazza Cavour, davanti alla Corte di Cassazione, dove decine di avvocati, con la mano sul petto, hanno ascoltato l’inno di Mameli, per poi avvicinarsi uno alla volta alla scalinata, un gesto simbolico per urlare che la sospensione delle attività giudiziaria blocca e sospende anche i diritti dei cittadini. «In questo momento di grande confusione, in cui il rumore di sottofondo riguarda i blocchi di potere in seno alla magistratura, è importante muoversi compatti per ricordare alla politica che la Giustizia serve a garantire i diritti dei cittadini e non solo le carriere dei pm», ha evidenziato Antonino Galletti, presidente dell’Ordine di Roma. La protesta ha attraversato l’intero Stivale, trovando una voce unica grazie all’iniziativa del Comitato Giustizia sospesa, composto dagli avvocati Germana Ascarelli, Isabella Darra, Domenico Dodaro, Melina Martelli, Maria Carmela Nicoletti, Isabella Maria Rinaldi e Stefania Spadoni. Il Comitato ha inviato giovedì una lettera al premier Giuseppe Conte e al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, evidenziando come la Fase 2 sia iniziata «senza una parola per il diritto alla difesa» e per la funzione sociale dell’avvocatura, ribadendo anche il peso sostanziale della Giustizia sul sistema produttivo ed economico. «Ma la nostra voce non è stata ascoltata», lamentano, ricordando il fermo immagine dei processi e la giungla di provvedimenti che ha generato un’incertezza che, prima di travolgere la loro professione, «travolge i diritti». Gli avvocati chiedono di essere sentiti per collaborare alla elaborazione di norme che consentano una vera ripartenza, ma, soprattutto, di essere «riconosciuti per quello che siamo: una componente essenziale del sistema produttivo». Le proposte sono semplici: protocolli giudiziari uniformi, sblocco della paralisi della giustizia attraverso una programmazione omogenea dell’attività giudiziaria, riavvio delle attività delle cancellerie (sia in presenza sia in smart working) per lo smaltimento dell’arretrato e avvio immediato delle attività di udienza su appuntamento, con accesso contingentato alle aule, udienze da remoto e trattazione scritta, laddove non sia richiesta la presenza delle parti e, infine, recupero del tempo perso anche con l’estensione degli orari di udienza. «Quando si vuole sopprimere lo Stato di diritto e la Giustizia - afferma in una lunga nota il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Trani - la prima cosa da fare è eliminare chi chiede nei Tribunali che la legge sia rispettata: gli avvocati». Il CoA denuncia il «sostanziale disinteresse della politica» nei confronti della stati giudiziaria. Un disinteresse che, più in generale, riguarda tutte le libere professioni, causando «un danno irreparabile al Paese», imponendo «misure oppressive e impossibili da attuare per l’adeguamento sanitario degli Studi professionali nel post coronavirus». La crisi del comparto Giustizia costa infatti al Paese un punto percentuale di Pil ogni anno, «oltre a tutti i costi accessori e non quantificabili come delusione e sfiducia di cittadini e imprese, che vedono allontanarsi ogni giorno di più la tanto sospirata decisione sulle controversie che li riguardano». Facendosi portavoce dell’intera categoria, gli avvocati di Trani chiedono che il calo della curva del contagio «sia accompagnato dall’allargamento della platea dei processi da trattare», insieme ad un intervento legislativo, «urgente e sistematico», che consenta la riduzione del numero di cause pendenti, «oltre al temporaneo sostegno economico all’avvocatura, gravata da troppo tempo solo da costosi obblighi professionali». Non con soluzioni assistenziali, «ma attraverso un riconoscimento del lavoro svolto».