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VERSO IL G7 DELL’AVVOCATURA
La battaglia di strada tra profughi eritrei e polizia, combattuta l’altro giorno in pieno centro di Roma, suggerisce molte riflessioni e molti spunti contraddittori. Sul comportamento della polizia, sul dovere della legalità, sull’immigrazione, sull’accoglienza, sulla violenza e sulla dolcezza.
Purtroppo gran parte dei nostri politici, e dei giornalisti, hanno voluto evitare sia la riflessione sia le contraddizioni. Hanno preferito usare la clamorosità dei fatti per fare propaganda e attaccare i propri avversari. Fanno così quasi sempre. È una vecchia abitudine della politica e del giornalismo, non solo in Italia ma in Italia di più.
Certe volte questa abitudine trascende, e arriva a creare volontariamente odio, odio per altri esseri umani. Perché c’è chi considera l’odio un elemento importante e insostituibile della battaglia politica. Succede così, in genere, quando le idee sono poche.
Allora si preferisce rivolgersi al popolo, usando questa leva, che è potentissima. La rabbia, la rabbia che diventa ribellione, la ribellione che diventa odio, e divide l’umanità in buoni e cattive, fratelli e demoni.
Quando sul terreno della battaglia si viene a trovare un problema complicato, come quello dell’emigrazione, che è un problema in carne e ossa e che riguarda gli stranieri, l’odio, molto facilmente, si trasforma in razzismo e in sentimenti violenti.
E’ successo così anche stavolta. Però, stavolta, il razzismo non è rimasto padrone del campo: non solo perché sono apparse sulla scena le tradizionali figure di contrasto con il razzismo - come i preti, i vescovi, le suore – ma perché si è manifestata una figura inaspettata: il poliziotto. Un poliziotto in assetto di guerra che invece di bastonare accarezza una signora, una signora nera, una signora eritrea, una signora piangente e disperata. Quella foto, bellissima, ha mandato all’aria la macchina razzista, oliata e pronta a colpire. Proviamo a vedere con ordine le varie questioni sollevate dalla giornata di guerriglia di giovedì.
IL COMPORTAMENTO DELLA POLIZIA
Non si può certo liquidare con un aggettivo. Della polizia fa parte quell’agente, o ufficiale, che si è fatto prendere dalla foga e ha gridato «spaccategli le braccia». Merita un aggettivo molto aspro. Della polizia fa parte anche il gigante in divisa antisommossa che consola la signora in lacrime. Merita un aggettivo dolcissimo. E della polizia fa parte il dottor Franco Gabrielli, il quale – tra tutti i rappresentanti dell’establishment – è stato forse l’unico ad averci offerto una analisi seria e pacata. Ha detto che la frase del suo agente è intollerabile, e si è lasciato sfuggire anche una critica velata all’uso esagerato degli idranti, poi però ha voluto indicare i veri colpevoli. E non ha detto, come hanno fatto vari giornali, che i responsabili sono gli eritrei, i negri. Ha detto chesono quelli che hanno lasciato una moltitudine di persone a vivere ammassate lì in condizioni sub umane. Ecco, Gabrielli non è certo nell’elenco dei cercatori d’odio. Ha anche lui delle responsabilità? Può darsi, ma comunque è una persona che le responsabilità se le assume. Non le nasconde alzando polveroni. La polizia doveva intervenire perché si era creata una situazione di illegalità? La polizia comunque doveva rispondere a ordini precisi. Il prefetto ha ordinato lo sgombero. Avrà avuto le sue ragioni. Forse però avrebbe fatto meglio a spiegarle queste ragioni, anziché parlare di infiltrati e provocatori tra gli eritrei. Francamente non si capisce chi avrebbe potuto infiltrarsi, e perché, e a che scopo. Del resto tutte le persone identificate sono risultate perfettamente in regola con le norme sull’immigrazione.
IL COMPORTAMENTO DEL COMUNE
Non si può dire che sia stato ineccepibile. È vero che a volte i problemi sono molto complessi e difficili da risolvere. Anche in questo caso. Da una parte la necessità di liberare il palazzo e restituirlo ai legittimi proprietari, e fare rispettare la legge, e la Costituzione, che prevede la proprietà privata. Dall’altro la necessità di trovare una soluzione abitativa per queste persone. Che vivono qui a Roma, hanno i permessi, molti lavorano vicino alla stazione e mandano i figli a scuola.
I problemi sono complessi, ma la politica dovrebbe servire proprio a questo: a trovare soluzione ai problemi complessi. La politica non è semplicemente l’arte di far polemica, non è la prosecuzione di un talk show. È un lavoro duro, che richiede esperienza, professionalità e molto, molto sacrificio.
Detto questo, danno fastidio anche le polemiche fatte e rifatte sempre uguali. Urla contro l’assessora che ieri non era a Roma perché stava in vacanza. Urla contro la Raggi che non era sul posto. Canovacci di propaganda politica presi a prestito dai nonni e dai bisnonni. Cerchiamo dirisolvere i problemi non di acchiappare voti.
IL COMPORTAMENTO DEI POLITICI
Anche qui siamo, più o meno, al cliché. Quelli di sinistra si strappano i capelli per la mancanza di misure sociali. Quelli di destra per l’offesa alla legalità e le critiche alla polizia. Poi ci sono i Cinque stelle. I Cinque stelle che si preparano a governare. E allora Di Maio ricopia pari pari certi slogan della Lega, o della Meloni, e dice che vengono prima gli italiani, o i romani, e che il Comune deve preoccupasi delle loro emergenze e non delle emergenze dei migranti. Può anche sembrare una frase di buon senso, ma invece è la culla del razzismo. Nessuno contesta la necessità di difendere la legalità ( poi possiamo dividerci su quando e fino a che punto sia opportuno farlo in modo intransigente e quando invece sia meglio mediare) e nessuno contesta neppure la giustezza di individuare una scala delle priorità nelle emergenze. Ma sostenere che una emergenza non è emergenza perché non riguarda i nati a Roma ma riguarda gente con la pelle nera ( è esattamente questa la sostanza della dichiarazione di Di Maio) vuol dire mettere dei mattoncini che servono a tirare su il muro del razzismo. Non lo dico come un anatema. Si tratta solo di ragionarci su, cosa che i nostri politici spesso non fanno. Se a determinate la scala della priorità non è l’oggettiva urgenza dei problemi ma è la nazionalità ( e dunque la razza) delle persone coinvolte, si stabilisce, di fatto, una scala razziale, magari con ottime intenzioni ma il risultato è quello.
IL COMPORTAMENTO DELLA STAMPA
Trascrivo qualche titolo preso dai giornali di ieri. Per esempio: «GIUSTZIA è FATTA ( a caratteri cubitali, maiuscoli, a tutta pagina) Casa occupata, liberata a colpi di manganello». Oppure: «Rubano agli anziani per dare agli stranieri».
Non voglio annoiarvi citando altri titoli, o altri brani di articoli. Dico solo che questo atteggiamento verso la cronaca ha poco a che fare con l’informazione e molto a che fare con la propaganda razzista e violenta. Rubano agli anziani per dare agli stranieri ( oltre ad essere un titolo che porta una notizia del tutto falsa) è un titolo che spinge a questa distinzione: noi e gli stranieri. Noi buoni e loro ladri. Noi con diritti, loro senza. E assomiglia moltissimo agli schemi della propaganda antisemita che era stata allestita nella seconda metà degli anni trenta dal regime fascista. Del resto, esultare per una giustizia che finalmente si fa largo a colpi di manganello, involontariamente ( o forse, invece, volontariamente) è qualcosa che riecheggia le canzoncine sul “santo manganello” che sono anche quelle un’eredità ( che credevo ormai dimenticata e superata) del mussolinismo.
LA MACCHINA DEL RAZZISMO
I giornali poi non restano soli. Dettano la linea. Ai politici, a qualche Tv, ai social. L’idea del contrattacco dello Stato che manganella i neri e li disperde, si diffonde in un baleno.
Ogni tanto qualcuno mi chiede: ma secondo te viviamo in un paese razzista? Io non credo che un paese sia razzista. Tantomeno l’Italia. Il razzismo è qualcosa che ovviamente nasce da sentimenti popolari profondi, dalla paura, dal senso di debolezza, dalla ricerca disperata di identità, ma il razzismo vince e dilaga solo se è sostenuto dall’establishment. È stato così in Germania, in Italia, in Francia, quando Hitler lo impose. È stato così, per decenni, negli stati meridionali degli Usa. È stato così in Sudafrica. C’è una macchina del razzismo, che si mette in modo, e produce odio. L’odio è l’elemento fondante del razzismo. L’odio come sostituzione del senso civico, o del patriottismo, o degli ideali. Gli americani chiamano proprio così i reati razzisti: hate crimes, crimini dell’odio. Non sono il frutto di un fenomeno spontaneo. Sono costruiti da una macchina infernale, potente e sofisticata, della quale i principali manovratori sono i giornalisti.