Dopo oltre dieci anni di battaglie legali, si è finalmente concluso il lungo iter giudiziario che ha coinvolto l'avvocato Antonio Galati, l'ex capo della Squadra Mobile di Vibo Valentia, Maurizio Lento, e il suo vice, Emanuele Rodonò. La Corte di Appello ha emesso una sentenza definitiva di assoluzione per i tre imputati, con la formula «perché il fatto non sussiste», ponendo così fine a una delle vicende più controverse della giustizia calabrese. La decisione segna la fine di un lungo processo, che ha visto l'assoluzione di Galati e dei due vicequestori dall'accusa di collusione con il clan Mancuso.

Come è iniziato tutto

L'intera vicenda si inserisce nel contesto dell'operazione “Purgatorio”, un'indagine condotta dai carabinieri del ROS e dalla Squadra Mobile di Catanzaro, sotto il coordinamento della Direzione Distrettuale Antimafia (DDA). L'operazione, parte di un'inchiesta più ampia chiusa tra il 2012 e il 2013, aveva come obiettivo quello di smantellare presunte connivenze tra il clan Mancuso e alcune figure istituzionali.

Il 25 febbraio 2014, un'ordinanza di custodia cautelare colpì l'avvocato Antonio Galati e i due poliziotti, Maurizio Lento ed Emanuele Rodonò. Galati fu accusato di partecipazione a un'associazione mafiosa, mentre a Lento e Rodonò venne contestata la complicità esterna con il clan Mancuso.

Nel processo di primo grado, celebrato nel gennaio 2018, Galati fu condannato a quattro anni e otto mesi di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. I due vicequestori, invece, furono assolti da quest'accusa, anche se Rodonò ricevette una condanna a un anno di reclusione per rivelazione di segreto d'ufficio.

Le accuse si basavano su intercettazioni e ricostruzioni che, in seguito, si sono rivelate incoerenti o mal interpretate. La difesa di Galati ha infatti dimostrato che le informazioni contestate erano già note e depositate in atti di un precedente processo risalente al 2007, rendendo infondate le accuse di violazione del segreto istruttorio.

In appello, la sentenza fu completamente ribaltata: la Corte dichiarò insussistenti le accuse contro Galati e confermò l'assoluzione di Lento e Rodonò per mancanza di prova. Per quest'ultimo, inoltre, la rivelazione del segreto d'ufficio cadde in prescrizione. Nel maggio 2022, la sentenza è diventata definitiva, ponendo fine a una lunga battaglia giudiziaria.

La voce di Galati: «Ho sempre creduto nella magistratura»

Visibilmente provato, ma determinato, l'avvocato Galati ha raccontato gli anni difficili trascorsi durante il processo. «Sono stati anni durissimi. Dal 2014 sono stato sospeso dalla professione e ho potuto riprendere a lavorare solo nel 2018, grazie al sostegno di colleghi come Sergio Rotundo e Francesco Gambardella. Ho ricominciato da capo, come dieci anni fa, nonostante tutto ciò che è successo», ha dichiarato.

Galati ha sottolineato che le accuse della polizia giudiziaria si sono rivelate infondate, in particolare quella riguardante la presunta rivelazione di atti coperti da segreto istruttorio. «Il dato che mi accusavano di aver rivelato era già presente in un processo del 2007. Non c'era alcun segreto, ma ho passato sei mesi in carcere prima che il giudice prendesse atto della documentazione che lo provava», ha spiegato. «La parte più dolorosa, però, non è stata solo l'attesa della giustizia, ma le conseguenze che questa vicenda ha avuto sulla mia famiglia». 

Pur riconoscendo la professionalità dei magistrati coinvolti, Galati ha espresso critiche verso la polizia giudiziaria: «Il lavoro della polizia è stato confuso e lacunoso. Non si può pretendere che un pubblico ministero sappia tutto. Non si può chiedere a un gip di verificare la veridicità di ciò che afferma la polizia prima di emettere un'ordinanza di custodia cautelare. È impensabile. Ma nel momento in cui la difesa presenta nuovi elementi, la capacità di un magistrato di rivedere le proprie decisioni è segno di professionalità e autorevolezza».

Le ripercussioni sulla vita personale

Galati ha anche sottolineato come il processo abbia avuto conseguenze devastanti non solo sulla sua carriera, ma anche sulla sua vita privata. «Hanno emesso un'interdittiva antimafia contro mio padre, che gestisce una piccola ditta, solo perché era mio padre. Anche i parenti con ruoli istituzionali hanno dovuto prendere le distanze. È stato un isolamento forzato e doloroso. Per dieci anni ho visto toccare la dignità di persone a me vicine, che non avevano alcuna colpa».

Il processo “Purgatorio” si conclude con l'assoluzione definitiva degli imputati, ma il bilancio umano e professionale di questa lunga battaglia rimane pesante. «Questa sentenza restituisce dignità a chi è stato ingiustamente coinvolto, ma non potrà mai restituire gli anni persi», ha concluso Galati.