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A un mese ormai dal 30 luglio, giorno della morte di Ciro Cirillo, l’assessore regionale campano della Dc sequestrato dalle brigate rosse fra il 27 aprile e il 24 luglio del 1981, e liberato dopo una misteriosa trattativa in cui fu coinvolta, a dir poco, la camorra guidata in carcere da Raffaele Cutolo, si può forse scrivere che egli non ha davvero lasciato memoriali o altro a qualche notaio. Lo aveva annunciato dopo la liberazione, fra le polemiche politiche e le indagini giudiziarie, per poi smentire, cioè per ripensarci. Sulle minacce hanno forse prevalso le promesse agli amici altolocati del suo partito, alquanto malmessi nella esposizione mediatica per avere violato con lui quella cosiddetta linea della fermezza, cioè di rifiuto di ogni cedimento al terrorismo, che tre anni prima era costata la vita ad Aldo Moro. La cui tragica scomparsa, preceduta dalla strage della sua scorta, aveva portato alla fine della politica di cosiddetta solidarietà nazionale col Pci di Enrico Berlinguer e a quella che Carlo Donat- Cattin, molto amico del presidente democristiano, definì “l’infarto della Democrazia Cristiana”.
Esponente del potente gruppo di Antonio Gava - che a sua volta deteneva l’azione d’oro, diciamo così, della segreteria del partito detenuta da Flaminio Piccoli - l’assessore Cirillo aveva tra le mani, nel momento in cui fu sequestrato, la ricostruzione dell’Irpinia e delle altre zone meridionali danneggiate dal terremoto del 1980: quello che aveva mandato su tutte le furie, per i ritardi e altri pasticci dei soccorsi, il presidente della Repubblica Sandro Pertini.
Forse le Brigate rosse non avevano pensato proprio a quei lavori di ricostruzione quando decisero di mettergli le mani addosso. Ma ci pensò la camorra, più lesta dello Stato nel controllo del territorio e probabilmente nell’individuazione del covo brigatista in cui il sequestrato era stato rinchiuso. Pertanto le Brigate rosse, avventuratesi in una zona off limits con una imprudenza che si erano risparmiate in una regione, per esempio, come la Sicilia, dovettero fare i conti anche con i camorristi per portare avanti e chiudere la loro avventura.
Furono pagati per la liberazione, versati di notte a Roma su un tram al regista del sequestro in persona, Giovanni Senzani ( poi condannato per questo ad uno degli ergastoli accumulati) un miliardo e mezzo di lire. Eppure Senzani, che vive ormai in piena e legittima libertà dal 2010, ha sempre smentito che dietro quel pagamento ci fosse stata qualche trattativa in cui fossero state coinvolte Brigate rosse, Democrazia Cristiana e camorra.
Nelle Brigate rosse Senzani aveva assunto ruoli apicali dopo la cattura a Milano, proprio in quel 1981, di Mario Moretti che nel 1978 aveva diretto a Roma il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro - e del compagno di idee e di lotta Enrico Fenzi. Di cui peraltro Senzani era cognato, avendone sposato la sorella. Oltre al sequestro Cirillo, toccò a Senzani gestire, nello stesso anno, il rapimento ma poi anche l’esecuzione, con altra condanna, di Roberto Peci, che pagò la colpa di essere fratello di Patrizio, il terrorista pentito che aveva permesso di sgominare mezza organizzazione sotto gli incalzanti interrogatori del generale Carlo Alberto dalla Chiesa e del magistrato Gian Carlo Caselli.
In uno scenario quasi esoterico che si ritrova navigando tranquillamente per internet, il povero Roberto Peci fu trattenuto dai suoi aguzzini per 55 giorni e ucciso con undici colpi d’arma di fuoco: 55 quanti erano stati i giorni di prigionia di Aldo Moro, tre anni prima, e 11 quanti i colpi sparati contro l’inerme presidente della Dc processato dal fantomatico tribunale del popolo delle Brigate rosse.
È curiosa davvero la storia di questo Senzani: una storia che ho avuto la sfortuna di incrociare personalmente con una vertenza giudiziaria finita anche all’esame dell’ultima commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro e sull’assassino di Moro, presieduta da Giuseppe Fioroni.
Siamo a cavallo fra il 2000 e il 2001. Dalla commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi incompiute, presieduta dal senatore Giovanni Pellegrino, dei Democratici di sinistra, arrivano voci clamorose sul ruolo che avrebbe svolto Senzani anche nel sequestro di Moro, tre anni prima dei fatti terroristici che gli avrebbero procurato processi e condanne.
Mi avvicina in Transatlantico, a Montecitorio, l’amico Nicola Lettieri, sottosegretario democristiano all’Interno all’epoca del rapimento del presidente del suo partito, e mi confida la sua inquietudine ritenendo che durante il sequestro proprio Senzani, da lui ritenuto quanto meno consulente del Ministero della Giustizia come criminologo, anche se lo stesso Senzani definirà pure questa una fandonia in una intervista del 2014 al Garantista, fosse stato contattato dal Viminale per aiutare politici e funzionari a interpretare i comunicati delle Brigate rosse.
Tracce di questa presunta consulenza tuttavia non si trovano fra le carte del Viminale. Me lo escluse, su richiesta formulatagli personalmente, anche Francesco Cossiga, ministro dell’Interno all’epoca dei fatti. Vengono invece fuori dalla commissione di Pellegrino altri fatti, come una deposizione del magistrato toscano Tindari Baglioni, occupatosi di terrorismo a Firenze. Che, invitato a dire se il sequestro Moro fosse stato possibile più per la debolezza dello Stato che per la forza delle Brigate rosse, risponde che entrambi avevano in comune un consulente, appunto Senzani. Del quale viene riferito alla stessa commissione che la Procura di Firenze chiese l’arresto dopo il fermo di un giovane armato che abitava presso di lui. Il capo della Digos locale, sempre secondo il racconto alla commissione, chiese prudenza trattandosi di un collaboratore dello Stato, comunque arrestato nel 1979, ma per soli cinque giorni, come dallo stesso Senzani ricordato poi nella già citata intervista del 2014 al Garantista. Egli comparirà solo due anni dopo quel breve arresto sulla scena del terrorismo con i sequestri di Roberto Peci e di Ciro Cirillo. Che in quella stagione tuttavia, come ha ricordato sul Dubbio Paolo Comi, non furono gli unici due rapiti dalle Brigate rosse o affini.
Furono prelevati dai terroristi anche il povero Giuseppe Taliercio, del polo petrolchimico della Montedison a Mestre, trovato poi ucciso, e Renzo Sandrelli dell’Alfa Romeo, fortunatamente sopravvissuto.
Quando la Commissione stragi conclude i propri lavori, nel finale della legislatura 1996- 2001, prendendo la decisione di inviare un rapporto alla Procura di Roma per chiedere praticamente un’indagine sul ruolo di Senzani nel sequestro Moro, ed esce anche un libro- intervista del presidente Pellegrino, pieno di riferimenti allo stesso Senzani, scrivo un articolo sul Giornale diretto da Maurizio Belpietro per auspicare un chiarimento sulla vicenda.
Senzani, in regime allora di semilibertà, dichiaratosi sempre estraneo - ripeto - al sequestro Moro e alla sua gestione, si sente diffamato non dalla Commissione stragi, dai magistrati da essa ascoltato o dal suo presidente ma curiosamente da me. E mi denuncia.
La solerte Procura di Monza manda immediatamente agenti della Polizia giudiziaria al Giornale per rilevare la mia identità e mi comunica già dopo un paio di mesi, a maggio, la chiusura delle indagini, senza mai interrogarmi e - temo - senza neppure leggere o solo sfogliare il libro intervista di Pellegrino e quant’altro. L’udienza dal giudice per le indagini preliminari, finalizzata al rinvio a giudizio, viene fissata per i primi giorni di luglio, ma salta per qualche errore di notifica e viene rinviata a pochi giorni prima di Natale.
L’avvocato del Giornale, cui naturalmente ho provveduto ad inviare tutta la documentazione raccolta, compresi alcuni verbali delle audizioni della Commissione stragi segnalatimi dallo stesso presidente, rimane colpito dai tempi dell’inchiesta giudiziaria, rapidissimi come una freccia rossa dei giorni nostri. Prende - presumo - i suoi contatti, assume le informazioni del caso e, sentendo puzza di misteriosi interventi, anche in relazione al rapporto della Commissione stragi inviato alla Procura di Roma, che in effetti dopo qualche anno archivierà i dubbi e le sollecitazioni degli inquirenti parlamentari, mi consiglia di chiudere la vicenda patteggiando. E così avviene, immagino con soddisfazione di Senzani e dell’accusa.
Anche Paolo Comi, pur non conoscendo forse la mia disavventura, nella rievocazione del sequestro di Ciro Cirillo ha giustamente e prudentemente scritto di Senzani sul Dubbio con una certa cautela, da me condivisa dopo l’esperienza avuta, ricordandone certamente il ruolo, d’altronde sanzionato in sede giudiziaria e definitiva, ma anche riportandone le smentite già ricordate ad una gestione delle trattative per il rilascio dell’assessore democristiano estesa alla Dc, alla camorra, ai servizi segreti e a quant’altro.
Eppure lo storico boss della camorra Raffaele Cutolo si è personalmente e ripetutamente vantato della collaborazione chiestagli e da lui concessa a pezzi importanti della Dc e dello Stato, intesi questi ultimi come servizi segreti, per arrivare alla liberazione di Cirillo. E non credo proprio che lo avesse fatto a titolo di generosità e di patriottismo, non essendo la camorra, in nessuna delle sue ramificazioni, un’associazione né benefica né patriottica. Anch’essa evidentemente riteneva di poterne trarre vantaggio, come poi si capì con la spartizione degli appalti per la ricostruzione delle zone della Campania danneggiate dal terremoto del 1980.
Non mancarono d’altronde inchieste giudiziarie sul ruolo della camorra nella gestione del sequestro Cirillo, con grossi e inquietanti tentativi di depistaggio. Il più clamoroso dei quali fu certamente il falso dossier passato ad una giornalista dell’Unità che chiamava in causa, fra gli altri, il democristiano Enzo Scotti, soprannominato Tarzan nel partito per la facilità con cui passava da una corrente all’altra e destinato a diventare dopo molti anni ministro dell’Interno.
Il giornale del Pci dovette scusarsi e il suo direttore Claudio Petruccioli dimettersi. Allora il giornalismo era una cosa seria, o più seria di adesso, e si usava fare così. Che era poi il modo più efficace anche per limitare i danni del depistaggio, evitando che si parlasse troppo a lungo non delle indagini sul sequestro Cirillo ma dell’infortunio del giornale del principale partito di opposizione.