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Il cittadino israeliano più odiato dagli israeliani è un avvocato penalista di circa settant’anni: si chiama Yoram Sheftel. Brillante, provocatorio al limite del cinismo compiaciuto ma con gli occhi sempre ben puntati sul diritto e la spada sguainata contro gli organi di informazione del suo Paese: «Vivono di processi mediatici, distorcono la verità, influenzano le condanne, sono dei maiali!». Insomma, uno che non le manda a dire. «Sono un ateo profondamente ebreo, credo nella legge e detesto il politicamente corretto», dice dal popolare talk show radiofonico che conduce da alcuni anni ricevendo secchiate di insulti. Sheftel diventa una celebrità nella seconda metà degli anni 80 quando decide di difendere John Demjanuk, operaio di origine ucraina immigrato negli Stati Uniti, accusato di essere nientemeno che il “boia di Treblinka”, ovvero Ivan Marchenko, responsabile dello sterminio di oltre 100mila ebrei. Lo aveva identificato nel giardino della sua abitazione di Cleveland una vicina di casa sopravvissuta alla Shoah. Estradato in Israele nel 1986 era stato condannato alla pena di morte tramite impiccagione da un tribunale di Tel Aviv. Una sentenza che Sheftel riuscirà a far annullare dopo una lunga battaglia legale fatta di testimonianze, perizie calligrafiche, viaggi in Unione Sovietica e confronti fotografici.Solamente il processo contro Adolf Eichman, il “burocrate dell’Olocausto” aveva coinvolto e scosso a tal punto la società israeliana. Con una pressione popolare insostenibile per chi deve giudicare senza emozioni e stati d’animo. Quando Sheftel accetta la difesa di Dejmaniuk è ben consapevole che si scontrerà contro un’intera nazione, che sarà costretto a comporre con il dolore e la memoria, che dovrà frugare dentro le carni vive di una ferita mai rimarginata e che lui stesso diventerà il bersaglio numero uno dei media che lo additano come un «traditore», un «venduto», un «avido narcisista », insomma il classico “avvocato del diavolo”. Subisce anche un attentato da parte di un ex deportato dei campi di sterminio che gli lancia dell’acido prussico sul volto rischiando di renderlo cieco.«Anche mia madre era sconvolta e si rifiutava di parlarmi», racconta Sheftel che quella sfida impossibile l’ha raccolta e perseguita con assoluta tenacia. Era convinto che Dejmaniuk non fosse “Ivan il terribile”, che si trattasse di un tragico scambio di persona, e che il desiderio di vendetta della società israeliana avesse obnubilato la capacità di giudizio dei magistrati. «Come ebreo, come figlio dell'Olocausto, non mi sentirei personalmente vendicato se dovesse essere mandato a morte un altro. Se altri non hanno esercitato giustizia, noi dobbiamo applicarla per tutti». Il clima intorno al processo è talmente esasperato che un membro del collegio difensivo di Dejmaniuk, l’ex giudice Dov Eitan, si toglie la vita, gettandosinel vuoto dalla finestra del suo appartamento. Per trovare le prove che scagionassero Dejmaniuk è andato a spulciare persino gli archivi del Kgb in un rocambolesco viaggio nell’Urss della perestroika ricco di aneddoti curiosi: «Sono entrato negli uffici dei servizi segreti e mi ha accolto una ragazza alla moda molto sorridente. Nel suo ufficio mi aspettavo di trovare i ritratti di Lenin e Stalin e invece aveva un poster di John Lennon». In quegli archivi trova le testimonianze di 21 secondini di Trblinka arrestati per crimini di guerra e interrogati dai sovietici dopo la caduta del Terzo Reich e dei documenti che riportano le generalità di Ivan Marchenko, la cui data di nascita non coincide con quella dell’accusato. La difesa sostiene che Dejmaniuk era un soldato dell’Armata rossa catturato dai nazisti e arruolato come sorvegliante nel campo di Treblinka, ma non “Ivan il terribile”. Le prove raccolte da Sheftel non scagionano pienamente Dejmaniuk ma fanno comunque crollare il castello dell’accusa: i 18 testimoni diretti che hanno riconosciuto Marchenko non sono più attendibili della documentazione del Kgb. Tutto è ormai nelle mani della Corte suprema israeliana che deve prendere la decisione più difficile e sofferta della sua storia. Ne esce fuori una sentenza esemplare nel senso stretto del termine, in cui i giudici prosciolgono Dejmaniuk perché «oltre ogni ragionevole dubbio», non ci sono prove certe della sua colpevolezza111: «Questa è la condotta giusta per noi giudici. Noi non possiamo esaminare i cuori e le menti, abbiamo solo quel che i nostri occhi vedono e leggono. Il caso è chiuso, ma non completo. La completa verità non è prerogativa dei giudici umani».Poiché nel turbine delle polemiche Sheftel ci nuota come un pesce, nel corso degli anni ha difeso altri imputati eccellenti come l’ex presidente Moshe Katsav, accusato di stupro, il medico militare Elor Azaria che ha sparato a morte a un palestinese inerme, o i mafioso bielorusso Meyer Lansky. Da qualche mese ha deciso di occuparsi di un altro “nemico del popolo”, l’estremista Yigal Amir, assassino nel 1995 dell’ex premier Ytzak Rabin che a suo avviso, dovrebbe ricevere la libertà condizionata. Non l’ha ottenuta in virtù di una legge del 2001 che vieta i permessi ai condannati per l’omicidio di un premier. Praticamente un provvedimento ad personam: «È illegale, non può essere applicata in modo retroattivo, Amir non deve uscire oggi, non deve uscire domani, doveva uscire già ieri».