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Già sopravvissute, in verità, alla lontana istituzione delle regioni, nel 1970, che avrebbe dovuto comportarne il superamento per espresso impegno dell’allora maggioranza di centrosinistra, e infine alla riforma costituzionale del 4 dicembre 2006, che ne prevedeva la soppressione, le province erano rimaste un po’ ai margini della pubblica attenzione per la loro riduzione a enti di cosiddetto secondo grado. Così erano state ridotte da una legge ordinaria che porta il nome di Graziano Delrio affidando l’elezione dei presidente ai sindaci dei rispettivi territori. Ora invece se ne vuole una vera e propria, completa resurrezione col ritorno all’elezione diretta dei loro presidenti e dei rispettivi consigli, visto che la loro riforma è fallita - sostiene il vice presidente leghista e ministro dell’Interno Matteo Salvini- a scapito della manutenzione delle 5 mila scuole e dei 130 mila chilometri di strade di originaria competenza provinciale. Manco a parlarne, sostiene invece il vice presidente grillino del Consiglio e superministro dello Sviluppo Economico e del Lavoro Luigi Di Maio, che teme il ritorno di 2500 fra presidenti e consiglieri provinciali, destinati ad affollare con i loro collaboratori, uffici e quant’altro un odioso “poltronificio”.
E’ l’ennesima lite scoppiata nel governo e nella maggioranza gialloverde, con ulteriore salita della “temperatura” denunciata con una certa severità da un po’ tutti i giornali. Che ormai, per la facilità e la frequenza con cui ricorrono al termometro per misurare il calore prodotto dalla convivenza fra leghisti e grillini dovrebbero cominciare a chiedersi se non siamo ormai tutti davanti a un altoforno. La sauna è diventata un’immagine insufficiente.
E’ scoppiata peraltro anche una lite nella lite, con i grillini che hanno rinfacciato ai leghisti di avere capovolto la loro linea critica verso le province, come verso i prefetti che un po’ ne incarnavano l’istituto con l’identica competenza territoriale. E i leghisti, al contrario, altrettanto documentati, in verità, impegnati a rinfacciare ai grillini una loro giravolta, pur in mancanza di un silenzio sulla materia nel famoso, per certi versi storico “contratto” stipulato l’anno scorso per la formazione del governo del mitico “cambiamento”: un silenzio violato - ha scoperto Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera rileggendosi ben bene il fascicolo- solo dalla citazione della provincia di Treviso come modello per la gestione dei rifiuti. Che non è certamente poca cosa coi tempi che corrono, specie a Roma per ammissione della stessa sindaca Virginia Raggi, ricorsa a immagini poco da signora per descrivere la situazione in un alterco con l’allora presidente dell’azienda comunale per la raccolta, si fa per dire, della monnezza.
A sostegno della modifica intervenuta nella linea della Lega sulle province c’è un annuncio nel 2011 del ministro leghista della semplificazione normativa, Roberto Calderoli, di una legge per abolire tutte le province con meno di 300 mila abitanti ciascuna. L’effetto sarebbe stato anche quello di eliminare - calcolò sempre Calderoli- circa 50 mila poltrone, da bruciare come le 375 mila leggi, decreti e quant’altro arsi già l’anno prima con un falò improvvisato dal ministro dell’ultimo governo di Silvio Berlusconi nel cortile della caserma dei Vigili del Fuoco di Capannelle.
Ai grillini invece è toccato di sentirsi rinfacciare dai leghisti di disattendere con la loro opposizione alle province una bozza di riforma delle autonomie concordata su carta intestata della Presidenza del Consiglio con la Conferenza Stato- Città metropolitane. Vi è previsto il ritorno all’elezione diretta, da parte dei cittadini, dei presidenti delle province e dei rispettivi Consigli. Ciò comporterebbe una piena rivalutazione o resurrezione, come preferite, delle province dei tempi più generosi, quando esse divennero in Italia ben 107, persino “a tre piazze”, secondo la definizione di Stella sul Corriere, che ha citato quella di Lanciano, Ortona e Vasto, in Abruzzo, dimenticando quella pugliese di Barletta, Andria e Trani. A voler essere sinceri, le Province sono state a lungo, almeno nella storia repubblicana dell’Italia, delle Cenerentole politiche: postazioni non molto ambite perché considerate, forse a torto, minori. E da li è difficile trovare uomini e donne che poi ne abbiano ricavato una spinta per salire chissà dove, con due sole eccezioni - che ricordi- di cui una prevalentemente personale e l’altra invece politica in senso stretto, avendo contrassegnato una svolta anticipatrice di livello nazionale.
La prima eccezione è la provincia di Firenze, servita al giovane Matteo Renzi per scalare poi il Comune principale della Toscana, poi ancora la segreteria del Pd e infine la guida del governo nazionale, compiendo peraltro l’imprudenza di cumulare le due cariche, per nulla impressionato dai guai in cui erano incorsi su quella strada due pezzi grossi della Dc, il suo partito di origine, come Amintore Fanfani e Ciriaco De Mita. Il caso di una provincia servita a segnare una svolta politica generale è quello di Roma, con l’elezione a presidente, nel 1998, di Silvano Moffa, già sindaco di destra a Colleferro. Era un anno in cui sembrava già esaurito il centrodestra improvvisato da Berlusconi a cavallo fra il 1993 e il 1994, portato ad una vittoria che costò, fra l’altro, ad Achille Occhetto la carica di segretario del Pds- ex Pci e tradottosi nel compimento dello sdoganamento dell’ancora Movimento Sociale capeggiato da Gianfranco Fini. Che, arrivato di suo al ballottaggio per il Campidoglio nel 1993 con Francesco Rutelli, si era visto preferito pubblicamente da un Berlusconi in procinto di candidarsi a Palazzo Chigi, e neppure elettore di Roma. Il bacio elettorale del Cavaliere non bastò poi a Fini per battere Rutelli. Sarebbero occorsi ancora anni per portare un uomo di destra al vertice del Campidoglio, con Gianni Alemanno nel 2008, per la prima e anche ultima volta. Ma quel bacio del Cavaliere, ripeto, era servito a Fini per entrare nel centrodestra, sia pure ambiguamente diviso fra una versione del Nord preclusa al leader della destra e una versione del Centro- Sud aperta, e preclusa invece alla Lega. Il cui leader Umberto Bossi si era fatto nel 1994 tutta la campagna elettorale attaccando, ricambiato, l’indigesto Fini ma un po’ anche Berlusconi, chiamato “Berluscaz” nei comizi con una foga così sfottente da fare sperare a Eugenio Scalfari, su Repubblica, che mai gli avrebbe permesso un vero e proprio approdo a Palazzo Chigi, con tanto di nomina da parte del capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro.
Da vincitore delle elezioni, grazie al nuovo sistema elettorale per il 75 per cento maggioritario e il rimanente 25 proporzionale, a listino peraltro subito bloccato, Berlusconi era riuscito invece a fare il miracolo di portare al governo entrambi i partiti fra loro incomunicabili. Ma l’operazione era durata poco, meno della durata di una gravidanza, forse anche a causa di una certa, imprudente euforia di Fini. Che aveva messo in difficoltà i suoi alleati, sinceri o non che fossero, volontari o obbligati, riproponendo come “lo statista del secolo” la buonanima di Benito Mussolini.
Fatto sta che, dopo un’estate al cardiopalma, con Bossi diviso tra il pigiama di Arcore, ospitato da Berlusconi, e la canottiera in Sardegna. Dove il Cavaliere non aveva saputo più come tenerlo lontano dalla sua reggia balneare. Il leader della Lega alla fine era sbottato. Incoraggiato al Quirinale da Scalfaro in persona, garante della prosecuzione della legislatura in caso di crisi, Bossi aveva fatto cadere il governo fra il sollievo della sinistra. Che con Massimo D’Alema, subentrato a Occhetto alla guida dell’ex Pci, aveva ringraziato certificando la Lega come una sua costola.
Erano seguiti eventi infausti per il centrodestra: l’ulteriore allontanamento della Lega verso la sponda secessionista della fantomatica Repubblica Indipendente del Nord, o Padania, e il ritardo delle elezioni anticipate, reclamate e in qualche modo promesse a Berlusconi nell’avvicendamento col suo ministro del Tesoro Lamberto Dini, per dare tempo alla sinistra di riorganizzarsi alleandosi con quel che rimaneva della Dc e col principale punto di riferimento ch’essa aveva, cioè Romano Prodi. Era seguita la sconfitta inevitabile di ciò che rimaneva del centrodestra nelle elezioni del 1996. Tutto sembrava destinato a ripetersi alla scadenza ordinaria della legislatura, nel 2001, avendo superato il centrosinistra anche l’incidente della caduta di Prodi nel 1998 e quella di D’Alema nel 2000, grazie ai parlamentari dell’ormai ex centrodestra messi insieme dall’immaginifico presidente onorario della Repubblica Francesco Cossiga. Il quale li paragonò con spavalda ironia alle truppe degli “straccioni” protagonisti della vittoria francese sui prussiani nella battaglia di Valmy del 20 settembre 1792.
Ma la sinistra, o centrosinistra, non aveva messo nel conto la Provincia di Roma, al vertice della quale si ripropose nel 1998 Silvano Moffa dopo avere sfiorato la vittoria nel 1995, quando aveva battuto al primo turno il candidato della sinistra Giorgio Fregosi con dieci punti di distacco soccombendo però nel ballottaggio.
Nelle elezioni anticipate di tre anni dopo, seguite alla morte improvvisa, per infarto, del presidente Fregosi, di vecchia e consolidata militanza comunista ma sostenuto nella corsa del 1995 dai post- democristiani, Moffa vinse in una sola battuta col 51 per cento, e 66 mila voti di scarto, sulla candidata del centrosinistra Pasqualina Napolitano, quasi omonima del più celebre Giorgio. Fu il segno di un cambio di vento, così avvertito anche nella lontana Gemonio da Umberto Bossi. Che cominciò ad accettare il corteggiamento politico dell’ostinato Berlusconi, continuato nonostante le resistenze di Fini a prendere anche solo un caffè con il leader della Lega. Il centrosinistra reagì spingendo ad offrire al Carroccio, col secondo governo di Giuliano Amato, una riforma un po’ spericolata, per contenuto e numeri parlamentari, ristretti alla maggioranza uscente, della parte della Costituzione riguardante le autonomie locali: il famoso titolo quinto. Che nella nuova versione avrebbe moltiplicato, più che le autonomie, il contenzioso fra i governi di turno e le regioni davanti alla Corte Costituzionale.
Bossi alla fine scelse di nuovo Berlusconi. Il centrodestra ne festeggiò il ritorno vincendo le elezioni del 2001 e premiando l’uomo che ne aveva in qualche modo favorito il ritorno, cioè Silvano Moffa, con la nomina nel 2004, dopo l’esaurimento del mandato alla presidenza della Provincia di Roma e la mancata rielezione, sottosegretario alle Infrastrutture: sì, proprio la carica tornata tanto di attualità in questi giorni con la vicenda del leghista Armando Siri.
Il sodalizio politico e personale fra Berlusconi e Moffa sopravvisse nel 2010 anche alla rottura fra lo stesso Berlusconi e Gianfranco Fini. Col quale l’ex presidente della Provincia di Roma si schierò in un primo momento aderendo al gruppo scissionista del Pdl “Futuro e Libertà per l’Italia” presieduto alla Camera da Franco Bocchino. Egli sottoscrisse in autunno anche la mozione per la sfiducia promossa contro il governo del Cavaliere nell’ufficio di Fini, per quanto presidente della Camera. Ma alla vigilia della votazione, fatta slittare a dicembre dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per mettere prima al sicuro la legge finanziaria del 2011, Moffa contestò i metodi, in particolare, di Bocchino e passò, o ritornò, dalla parte di Berlusconi contribuendo in modo decisivo a fargli vincere la partita. Poi organizzò e presiedette il gruppo dei parlamentari che, provenienti anche da sinistra, avevano deciso di fare sopravvivere per senso di “responsabilità”, col governo Berlusconi, la legislatura. Essa arrivò in effetti al termine regolare del 2013, ma non con il Cavaliere, costretto un po’ dalle sue vicende giudiziarie ma ancor di più dalla sopraggiunta crisi finanziaria esportata in Europa dagli Stati Uniti a dimettersi nell’autunno del 2011 e a passare la mano al governo tecnico del loden, come fu chiamato per via dell’abbigliamento usuale dell’uomo chiamato a guidarlo con la preventiva nomina a senatore a vita: il professore Mario Monti.
Pensate un po’ che valanga era destinata a partire nel 1998 dalla vicenda politica della Provincia di Roma, dove peraltro dieci anni dopo sarebbe arrivato come presidente Nicola Zingaretti. Vi dice niente questo nome? Sì, è proprio lui, attuale presidente della Regione Lazio e soprattutto segretario del Pd, lanciatosi per ora nell’avventura di strappare nelle elezioni europee di fine maggio il secondo posto al Movimento delle 5 Stelle, dopo il primo ormai assegnato generalmente dai sondaggi alla Lega di Salvini.