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Non si farà il nome del giudice. E neppure quello del Tribunale. Ma l’avvocato sì, diciamo chi è: Simona Giannetti. È la penalista del Dubbio, il difensore a cui i giornalisti di questa testata si affidano se querelati. La storia merita di essere raccontata e non sarà sminuita dagli omissis su qualche dettaglio. Perché non è un caso unico e irripetibile: è semplicemente emblematico. Dimostra quali siano i rischi di un uso sbarazzino e disinvolto del processo da remoto. Soprattutto in campo penale, lì dove la discussione, com’è giusto che sia, può anche diventare animata.
Siamo al 30 dicembre. L’avvocata Giannetti riceve alle nove e dieci comunicazione che un proprio assistito sarà sottoposto a giudizio per direttissima di lì a un paio d’ore scarse. Il reato: furto di energia elettrica. L’udienza davanti al giudice di un Tribunale emiliano non può che celebrarsi da remoto: l’avvocata ha studio a Milano e non c’è il tempo materiale per consentirle di raggiungere il luogo del processo. Piattaforma Teams, come sempre. Giannetti contesta due motivi di illegittimità nell’arresto: l’assenza di flagranza, giacché l’intervento della polizia giudiziaria è avvenuto a distanza non tollerabile dal fatto, e soprattutto lo stato di salute della persona accusata, che rende la detenzione in carcere impraticabile. Si tratta di un uomo che già si trova ai domiciliari per motivi appunto di salute in quanto affetto da patologia grave. Nel serrato scambio in videoconferenza, tra voci che inevitabilmente si accavallano, il difensore segnala al pm di avergli inoltrato, appena saputo dell’arresto, la documentazione sanitaria. Il magistrato dell’accusa nega di aver ricevuto le carte. Inizia una discussione ancora più intensa. Il giudice interviene, ma di fatto per schierarsi con il collega pm. L’avvocata Giannetti non ci sta. Ribadisce che l’invio dei documenti è regolarmente avvenuto. E il giudice allora cosa fa? Disattiva il microfono virtuale del difensore. Così, con un clic.
Ora, fermiamoci un attimo. E riflettiamo. La “stanza” di Teams, come si chiama la piattaforma usata dai magistrati per le udienze da remoto, dovrebbe equivalere a un’aula di tribunale, giusto? Ebbene, secondo voi, nella Repubblica italiana, a Costituzione vigente, sarebbe mai possibile che un giudice chieda al carabiniere di turno di imbavagliare l’avvocato perché è troppo combattivo nella schermaglia col pm? No, eh? E allora perché una cosa cosi grottesca può verificarsi con il videoprocesso?
La domanda non è capziosa: è necessaria. «Io mi permetto di dire proprio questo», commenta Giannetti con il Dubbio dopo aver riferito l’illuminante episodio. «Mi rivolgo ai tanti colleghi che si dicono entusiasti o comunque persuasi dell’utilità del mezzo digitale, e chiedo loro se un episodio come quello capitato alla sottoscritta non dimostri il rischio che soprattutto noi penalisti finiamo per essere gradualmente e magicamente espulsi dal processo come un fastidioso malware, di cui si può fare a meno. Mi chiedo», aggiunge ancora Giannetti, «se una vicenda del genere non dimostri quanto sia necessaria una regolamentazione rigorosa dello svolgimento delle udienze a distanza. Il giudice è tecnicamente il gestore del collegamento, e gli dovrebbe essere rigorosamente vietato disattivare il microfono dell’avvocato come se fosse appunto un fastidioso intruso nella dialettica fra lui, cioè il giudice, e il suo collega inquirente».
Capito? Giannetti reclama opportunamente un immediato intervento non solo perché, nell’episodio specifico di cui è stata protagonista, il giudice ha manifestato chiaro disappunto per il successivo “gesto di insubordinazione” da lei compiuto, quello cioè di riaccendere inopinatamente il microfono. Non solo Giannetti chiede di chiarire se la “stanza” virtuale possa e debba davvero equivalere all’aula fisica anche quanto a parità nel contraddittorio ( articolo 111 della Costituzione). Non solo vuole sapere se si debba rassegnare al fatto che, in quei secondi in cui la sua voce è stata ammutolita, il giudice si è rivolto al pm proprio per commentare la partecipazione a suo parere eccessivamente vigorosa del difensore. L’avvocata Simona Giannetti ritiene, prima di tutto, che «questa modalità digitale, proprio per i problemi che fisiologicamente comporta, soprattutto nelle discussioni più animate, con l’accavallarsi delle voci, con l’inevitabile ritardo nell’arrivo del suono, vada assolutamente messa a norma. A maggior ragione», aggiunge, «considerato che l’Anm ha appena chiesto al ministro Bonafede di prolungare le misure emergenziali anche nel processo penale fino alla fine del 2021».
E sì, perché tra le questioni sollevate all’ultimo direttivo dal “sindacato” dei giudici, oltre a quella della precedenza nelle vaccinazioni ( di cui si dà conto in altro servizio del giornale, ndr) c’è anche l’asserita urgenza di reclamare al ministro, nell’incontro in programma domani, la proroga del regime emergenziale per i processi. Prima ancora di comprendere quanto sia pericoloso affidarsi con eccessiva fiducia allo strumento tecnologico, sarà forse il caso di persuadere il legislatore che, sempre nell’interesse comune della giurisdizione, se restasse un pur minimo ricorso, e anche solo per pochi altri mesi, alle udienze da remoto, servirà un codice ferreo per evitare di trasformarle, seppur involontariamente, nel trionfo dei paradossi.