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Ci sono uomini che la Storia dimentica troppo in fretta, e altri che la storia non può permettersi di dimenticare. L’avvocato Ugo Baglivo appartiene a entrambe le categorie. Nato nel 1910 ad Alessano, un piccolo paese nel cuore del Salento, tra ulivi secolari e muretti a secco, Baglivo crebbe in un’Italia che già stava cambiando. La sua giovinezza coincise con l’ascesa del fascismo, ma anche con la crescita dentro di sé di un senso profondo della giustizia, della dignità umana, della libertà.
Diventare avvocato non fu per lui una semplice scelta professionale o economica, ma un atto di fede civile. Vedeva nel diritto non uno strumento del potere, ma una barriera contro l’arbitrio, un rifugio per chi non aveva voce. Quando si trasferì a Roma, al centro dell’Italia politica e giuridica, lo fece per portare avanti quella che per lui era una missione: usare la legge per difendere l’uomo, non per soggiogarlo.
Il suo studio legale divenne presto qualcosa di più: un rifugio per perseguitati, un luogo dove si incontravano intellettuali, studenti, militanti, ebrei in fuga. Nei suoi uffici non si parlava solo di codici e sentenze, ma anche di futuro, di giustizia, di libertà. Roma, in quegli anni, era attraversata da un silenzio pesante, fatto di paura e sorveglianza. Ma nel cuore della città, uomini come Baglivo custodivano un’altra Italia: quella che non si arrendeva.
Era un militante del Partito d’Azione, una delle formazioni più idealiste e coraggiose della Resistenza. Per Baglivo, la politica era inseparabile dalla responsabilità morale. Non credeva nei compromessi quando erano in gioco i diritti fondamentali. Lottava per una Repubblica che ancora non esisteva, ma che già immaginava: laica, giusta, libera.
Nel febbraio del 1944, mentre i nazisti rafforzavano il controllo su Roma e il terrore si faceva metodo, Baglivo fu arrestato dalla Gestapo. Non possedeva armi, non guidava un gruppo armato, ma era pericoloso proprio per ciò che rappresentava: un’idea, un modello, un rifiuto totale della sottomissione. Fu rinchiuso nel carcere di via Tasso, il centro della tortura e della repressione nazista nella capitale.
I compagni di prigionia lo ricordano come un uomo sereno e fermo, che non si lasciò piegare né dalle minacce né dal dolore. La sua forza era nella coscienza, nella consapevolezza di essere dalla parte giusta della storia, anche se quella parte sembrava sul punto di essere cancellata.
Il 24 marzo 1944, dopo l’attentato partigiano di via Rasella contro un reparto tedesco, le autorità naziste ordinarono una delle rappresaglie più feroci della Seconda guerra mondiale. 335 prigionieri politici, partigiani, ebrei e civili furono condotti in una cava alla periferia sud di Roma, le Fosse Ardeatine, e fucilati in gruppi di cinque, con un colpo alla nuca.
Ugo Baglivo fu uno di loro. Aveva 34 anni. Il suo corpo fu sepolto tra le rocce, ma la sua memoria non si è mai spenta.
Oggi, il suo nome è inciso su una lastra di pietra tra gli altri martiri, ma pochi conoscono la sua storia. Non ci sono film su di lui, né romanzi o piazze a lui dedicate. Eppure, il suo esempio vive ogni volta che un avvocato difende i diritti di chi non ha potere, ogni volta che un cittadino rifiuta la complicità col silenzio, ogni volta che la Costituzione – la stessa che uomini come Baglivo hanno reso possibile – viene letta, insegnata, amata.
Baglivo non è morto per un ideale astratto, ma per un principio concreto: che la giustizia è tale solo se è per tutti. E che la libertà, come il diritto, non può esistere senza coraggio.
Non aveva un fucile. Non guidava insurrezioni. Ma era pericoloso perché credeva in un mondo diverso. Credeva che anche nella notte più scura, la legge potesse essere luce. E che un uomo solo, con la toga sulle spalle e la verità nel cuore, potesse ancora dire "no" al male.
Quella toga, oggi, è diventata bandiera. La sua vita, lezione. Il suo sacrificio, monito.
Ricordare Ugo Baglivo non è solo un atto di memoria: è un dovere verso la democrazia. Perché finché ci sarà un giudice che resiste al potere, un avvocato che difende i più deboli, un cittadino che non chiude gli occhi davanti all’ingiustizia, Baglivo continuerà a vivere.