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«Le opinioni delle persone, su internet, sono mutevoli come il clima. Non è odio vero, non lo pensano davvero» spiega la protagonista di Odio universale, in originale Hated in the Nation, una delle più belle puntate dell’amata serie tv britannica Black Mirror.
Il cinguettio di Twitter con il suono del disprezzo, la notifica Facebook con il rumore del dileggio. Una sintesi perfetta che ritrae l’inquietante metamorfosi di un sentimento ancestrale e immortale che impatta con l’universo dei social network. La puntata inizia con la storia di Jo Powers, un’editorialista – colpevole di aver scritto un articolo spietato contro una disabile – che diventa vittima di un vero e proprio linciaggio da parte del cosiddetto popolo del web. La pressione dell’odio virtuale la conduce, in circostanze sospette, alla morte. Ed eliminato un capro espiatorio, la gogna mediatica ne elegge un altro: nella puntata dai toni apocalittici si susseguono senza interruzione minacce di morte e veri cadaveri.
La serie prodotta da Netflix, insomma, ci consegna l’obbligo di riflettere sui peccati d’odio digitale di cui, consapevolmente o meno, ci macchiamo ogni giorno. Il centro dell’analisi è la gogna pubblica che avviene quotidianamente su internet e che ha per protagonisti internauti che commentano e accusano, con una disinvoltura alimentata dall’assoluta mancanza di responsabilità garantita dall’indistinto popolo della rete. Un odio mediatico finora sconosciuto che si diluisce in una proliferazione infinita di avatar anonimi, in un’onda virtuale difficile da controllare e da arginare, che si nasconde dietro la viltà del gregge dove nessuno è colpevole e nessuno innocente. Un odio leggero che ha effetti pesanti. Il battito d’ali di una farfalla che provoca un uragano. Un uragano che è diventato il centro dell’importante incontro delle avvocature dei Paesi del G7: è infatti fondamentale discuterne e trovare soluzioni. A partire dalla storia di questo sentimento.
ORIGINE DEL MALE
Ma non dobbiamo farci ingabbiare in una liberatoria critica apocalittica che scarica la colpa sul perfido e perverso sistema mass mediatico. L’odio, se si rintraccia la sua natura antropologica, alberga da sempre nel cuore dell’uomo. È sempre esistito e non cesserà di esistere: fa parte delle caratteristiche essenziali che definiscono l’umano e che ne determinano la sopravvivenza.
L’odio, infatti, non è solo una forza disgregativa e distruttiva. E, viceversa, l’amore non è solo un’energia aggregativa e costruttiva. Anche la passione amorosa è una potenza cannibalica che implica egoismo e possesso, isolamento e selezione, scelta ed esclusione. Odiare, al contrario, può essere un formidabile collante, un cemento che definisce e unisce con una forza più potente dell’amore. Non c’è Eros senza Thanatos, amore senza odio: le due forze indispensabili, diceva già Empedocle di Agrigento nel V secolo a. C., per tenere in equilibrio il mondo.
Se è vero che l’uomo non è per natura una creatura mansueta, la dose di aggressività che si annida nei fenomeni legati all’odio nel mondo contemporaneo fa parte da sempre del corredo pulsionale della nostra specie. L’uomo è per natura un animale sociale che detesta i suoi simili. Anzi, l’aggressività, il “cosiddetto male” per parafrasare un celebre libro dell’etologo Konrad Lorenz, oltre a essere un istinto primordiale che esige di essere scaricato, è il motore dell’evoluzione della vita animale e umana.
Odi ergo sum, odio quindi sono. L’odio rafforza la nostra identità, localizzando all’esterno di noi ciò che non riusciamo a gestire all’interno: se il male è tutto proiettato nell’oggetto odiato, la rappresentazione ideale di noi stessi non è intaccata. E in più elaboriamo la frustrazione che riconosce nell’altro una differenza non assimilabile, uno scarto che ci meraviglia e terrorizza.
SENTIMENTO PLURALE
Se l’amore rimane un sentire singolare, l’odio diventa inevitabilmente plurale: il mio risentimento si salda con quello del vicino e si scaglia contro una persona o un’intera categoria. A livello sociale, l’odio si trasforma in strumento di coesione e in arma di propaganda. L’odio – ha scritto Umberto Eco in una nota bustina di Minerva – «non è individualista bensì generoso, filantropico, e abbraccia in un solo afflato immense moltitudini». Non è un caso che le dittature e i populismi, le religioni e i fanatismi lo utilizzino per saldare in modo indelebile la comunità dei proseliti. L’odio per un nemico comune unisce più di qualsiasi programma politico. Il fanatismo identitario utilizza l’odio come collante per fondare la comunità su valori intramontabili: il risentimento e la rivalsa. L’odio, come dice Lacan, non è stato messo ancora al posto che gli spetta. L’odio plasma, singolarmente e collettivamente, la visione di noi stessi e del mondo. La lotta per l’esistenza e l’odio, ci ricorda Lev Tolstoj, «sono le uniche cose che leghino gli uomini».
In termini filosofici, potremmo parlare di una metafisica della convinzione contro lo scetticismo dell’incertezza. Noi contro loro. La luce contro la tenebra. I buoni contro i cattivi. Gli onesti contro i ladri. I virtuosi contro i viziosi. L’odio, in questi termini, è lo sforzo di cancellare l’ambivalenza, di estirpare tutto ciò che non si lascia definire, di annullare l’indeterminato. L’odio alimenta la produzione di coriacei stereotipi, definisce una cartografia della parte giusta e della parte sbagliata che non lascia spazio al dialogo e alla discussione.
L’odio, quindi, non è una malefica invenzione della società iper tecnologizzata né dell’economia capitalista. Non è stata la tecnologia a renderci livorosi e malevoli. La rete non produce odio, ma funge da potente catalizzatore di un fenomeno originario inestirpabile. La tecnologia è un megafono che amplifica ciò che, già da sempre, siamo.
INDIGNAMOCI!
Eppure non possiamo negare che il risentimento indignato che sfocia nella violenza verbale sia il mood dominante della nostra epoca. D’altronde “Indignamoci! ” è l’imperativo morale che dirige i dibattiti quotidiani, dal bar alla televisione. Il motto, mutuato dal famoso pamphlet intitolato Indignezvous!
di Stéphane Hessel, è un invito all’indignazione come panacea di tutti i mali, come risveglio della coscienza, come impulso verso l’azione.
E l’indignazione si è diffusa esponenzialmente in una cultura convergente, dove i commenti rimbalzano da una piattaforma mediatica all’altra, senza soluzione di continuità. Grazie alle comunicazioni di massa, l’indignazione livorosa si è amplificata e diffusa con un raggio d’azione finora sconosciuto.
Una grande fucina che ha dato voce al richiamo della foresta, al risveglio dell’istinto bestiale di chi agogna la vendetta più che la giustizia. Nel web si è aperta una pericolosa terra di mezzo dove la rabbia sociale e lo sdegno morale si confondono con la frustrazione e l’aggressività dell’anima ferina che alberga dentro di noi. Come ha scritto il sociologo Erich Fromm, «non c’è fenomeno che contenga così tanto sentimento distruttivo quanto l’indignazione morale, che permette all’invidia o all’odio di manifestarsi sotto le spoglie della virtù».
E in una società virtuale dove tutto rimane online e niente può essere dimenticato, il risentimento, letteralmente il “sentire ancora, sentire di nuovo”, diventa il principale veicolo di una comunicazione che ritorna incessantemente sulle proprie ossessioni.
POPOLO DEL WEB
Il fumoso e indistinto “popolo del web” è il nuovo branco dove l’odio si dirige verso un nuovo nemico che, però, ha sempre le stesse caratteristiche: è debole, isolato, attaccabile e sconfiggibile. Dai riti tribali agli haters da tastiera, l’odio – per essere davvero efficace e vincente – deve seguire la stessa immutabile legge: colpire l’inerme e l’indifeso.
Infatti, non c’è odio senza una folla che si scaglia contro un singolo. È sempre tutti contro uno. E le folle di cui parlava lo psicologo Gustave Le Bon, oggi pascolano nella piazza virtuale. E sono diventate, nella definizione del filosofo sudcoreano Byung- Chul Han, un vero e proprio “sciame” che non ha un’anima né uno scopo. Uno sciame sovraeccitato le cui opinioni si esprimono attraverso una costante Shitstorm – letteralmente una “tempesta di merda” – che assume i connotati dell’antica gogna.
Sopravvive, nella sua versione digitale, l’antico castigo che affonda le radici nella nostra storia culturale e che esponeva l’accusato agli insulti del popolo in un luogo pubblico, con le mani legate e un cartello di accuse appeso al collo. “Signore dacci la nostra gogna quotidiana”. E puntuale ogni mattina arriva la flagellazione di turno. Con la folla del Colosseo mediatico che grida ai poveri gladiatori della politica: “Onestà! Onestà! ”. Lo aveva già scritto Seneca in tempi non sospetti: «La prima arte che devono imparare quelli che aspirano al potere è di essere capaci di sopportare l’odio».
Perfino la comicità, che dovrebbe essere orientata al buonumore, è infettata dall’odio. La satira si è trasformata in mero sarcasmo fondato sul dileggio e sull’offesa. L’ironia si è deformata in caustica derisione che disprezza ostentatamente l’oggetto di cui si occupa, in ghigno corrosivo incapace di nascondere l’odio settario di chi si prende troppo sul serio.
E se le conseguenze di quest’odio impalpabile e volubile, senza pensiero e senza ragione, sono efferate e visibili? E se le parole colpiscono con la stessa brutalità delle azioni? Se non ci sono dei limiti a ciò che può essere detto, come potranno esserci a ciò che può essere fatto? Qual è il limite tra la libertà di espressione e l’istigazione all’odio e alla violenza? Siamo tutti chiamati a guardarci nel black mirror, nello “specchio nero” dove si intravede la nostra coscienza che gioca con le vite degli altri.
Qualcuno ha definito così il rancore e il risentimento: «È come prendere un veleno e aspettare che l’altro muoia». L’odio che dilaga sul web, oltre a essere l’inestirpabile retaggio di un passato che non passa, è un’intossicazione pericolosa di cui siamo al contempo colpevoli e vittime. In una spirale senza uscita, l’odio si nutre vampirescamente dell’insoddisfazione che contribuisce ad alimentare e ci traghetta in un mondo barbaro e incivile che credevamo di aver abbandonato.
Il clima è saturo di passioni biliose, ma forse proprio la cultura e la filosofia, amiche dell’indefinito e nemiche del fanatismo, possono rappresentare una – seppur temporanea – scialuppa di salvataggio contro l’odio settario e beota degli haters.
L’odio infatti ha un solo nemico: il dubbio. Chi odia non può farsi lacerare dalle domande, è per definizione dogmatico e integralista. Perché, come chiosava giustamente il filosofo Ortega y Gasset, l’uomo saggio è colui che è tormentato dal sospetto di essere un imbecille, mentre solo l’imbecille è sempre fiero di sé.