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Punito il legale che promette di chiedere zero euro di anticipo
di Cristina Montaruli, avvocato, Associate Director in Valletta Relazioni Pubbliche, dipartimento Directories In origine fu l’avvento della rete e i primi siti web. La questione, per il settore legale nostrano, emerse con estrema lentezza favorita dalla pervicace ostinazione delle istituzioni forensi a non governare il fenomeno regolandolo; nell’illusione di poter soffocare il cambiamento del contesto socioeconomico - leggasi mercato, perché di mercato si parlava e si parla ancora, checché alcuni veterani delle aule e della politica forense storcano il naso.E proprio la mancanza di una regolamentazione organica, e super partes, agli albori degli anni 2000 e per i successivi 15, è stata all’origine di tutte le battaglie deontologiche, alcune dagli esiti quasi comici. Era il 1999 quando gli avvocati più innovatori (e tra questi, per ovvie ragioni, quelli del comparto corporate-business) festeggiarono l’apertura alla cosiddetta pubblicità informativa, concetto ibrido che soppiantò l’odioso termine pubblicità. Fino al 2006 (anno della Direttiva CE c.d. Bolkestein) il Codice Deontologico elencava gli strumenti di pubblicità informativa consentiti, tra i quali annuari professionali, riviste e pubblicazioni giuridiche, siti web con domini propri (o riconducibili). Proprio quest’ultima specifica causò non poche questioni, specie con l’avvento dei social network.Venne il decreto Bersani e si affermò, invero, l’opposto principio di una sostanziale libertà di forma nella comunicazione purché nel rispetto di modalità e contenuti conformi a dignità e decoro della professione. Nel 2012, anno della riforma dell’ordinamento della p.f., si ravvisarono prime aperture alla presenza degli avvocati e degli studi su siti “gestiti da terzi”, ma con una tale riluttanza tra le righe che spinse molti COA ad atteggiamenti restrittivi spesso ingiustificati, terreno fertile per schermaglie - quelle sì poco decorose - tra rivali di foro. Una nota sulla riluttanza: fu anche l’anno in cui le Sezioni Unite - per dire - confermarono la sanzione disciplinare per l’avvocato che ebbe l’ardire di usare sul sito web l’espressione “l’angolo dei diritti” e rifiutarono di tener conto del “ravvedimento operoso” di quest’ultimo, poiché istituto inesistente nel sistema disciplinare forense - Cass. Civ. sez. Unite 14368/2012: per la serie non c’è perdono quando ci sono di mezzo le rendite di posizione. Solo con la riforma del Codice Deontologico del 2016 ci si sbarazza del tutto dei limiti all’utilizzo dei siti web propri o di terzi e, in generale, si afferma una sostanziale presa di coscienza dell’evoluzione della professione. Questa carrellata a voler ricordare la sfiancante lotta per una vera apertura della professione legale tutta (e non solo dell’avvocatura d’affari, oggi impegnata al fianco delle aziende sul terreno nazionale e globale) alle logiche di un mercato – ormai estraneo a logiche di confine – che negli ultimi 20 anni è mutato a suon di contaminazioni tra modelli di business, culture imprenditoriali, approcci professionali e deontologici diversi, innovazioni e tools digitali (tali e tanti che starvi dietro è a tutti gli effetti un nuovo lavoro) che hanno proiettato nel mondo i nostri avvocati. O almeno quelli che, causa sovraffollamento competitivo, sono usciti dallo studio e hanno seguito le aziende clienti nei loro mercati, rispondendo alle loro esigenze, imparando la loro lingua per esser compresi e dunque scelti (vi dice niente il termine Legal design?). In questo contesto che vi ho appena descritto si collocano Premi, Graduatorie, Classifiche (ovvero Awards e Rankings) che intrecciano vicende e numeri di aziende, operazioni, avvocati d’affari (prima che difensori, perché il contenzioso merita una postilla). Questi Awards e Rankings sono notoriamente e globalmente strumenti di cui le aziende si servono quando sorge la necessità di servizi legali specializzati in altre giurisdizioni, da parte di professionisti di comprovata, o comprovabile, esperienza. Se ora vogliamo raccontarci che, in virtù di studi, abilitazione, esperienza sul campo, formazione continua tutti gli avvocati sono uguali, ci nascondiamo dietro a un dito. Ogni avvocato può informare il mercato sulle proprie competenze, tuttavia il potenziale cliente gli chiederà puntualmente conto di mandati e clienti. E qui, a parità di formazione, competenza e potenzialità, emergeranno differenze abissali (vi dice niente la prassi dei Beauty contest?). Torniamo agli Awards. A partire dagli anni 90 sono nati, per lo più in UK, nell'alveo di gruppi editoriali (del livello del Financial Times) o di centri studi di settore, delle “Guide” (tipo Michelin) che listano studi legali, team e singoli professionisti secondo vari criteri di indagine qualitativa (settori industriali, tipologia di operazioni, giurisdizioni, soddisfazione dei clienti, pareri di altri esperti del settore inclusi concorrenti). Questi strumenti sono usati, ovunque, da migliaia di operatori del mondo economico e finanziario (Aziende, Consulenti Manageriali, Istituzioni, Istituzioni Finanziarie, Università, Giornalisti etc.) ed è per questo che un premio o un elevato posizionamento in una classifica hanno assunto un peso rilevante. E sempre intorno a questo mondo affollato, che peraltro ha creato posti di lavoro e generato ricchezza, è comprensibilmente cresciuta un’esigenza di informazione da cui la nascita di specifiche riviste, periodici, digitali e cartacei, testate giornalistiche che trattano notizie. Non trovo quindi corretto far di tutta l’erba un fascio e virgolettare “testate” registrate presso tribunali, mettendo in dubbio che le notizie diffuse siano a tutti gli effetti notizie, dal momento che c’è un folto numero di persone interessate a leggerne. Detto questo, a partire dagli anni 2000, in Italia sono nati gli omologhi di quei prodotti editoriali presenti in altri paesi. Tra cui anche la vituperata rivista, con relativo premio, balzata all’onore della cronaca legal per la questione GKN. Il caso ha fornito l’opportunità di gridare al “Predatory Prize”, alle serate da cui tutti i partecipanti-paganti tornano a casa con un premio farlocco, si è parlato di studi che vengono direttamente contattati (dopo spulciatura di siti e qualche ricerca sulla stampa) con l’offerta del premio, ma non credo proprio che nel caso specifico sia andata così. In alcuni casi, non lo escludo ma non ne ho avuto esperienza diretta, la notorietà di una questione legale, e conseguentemente dell’avvocato, ha facilitato l’ingresso “ad honorem” nel panel dei finalisti senza autonoma candidatura, ma di base c’è tutto un articolato processo di presentazione di cui, molti che in questi giorni parlano, non hanno idea. Per gli addetti ai lavori si tratta delle cosiddette Submission: articolati form di candidatura dove vengono fornite descrizioni e disamine di casi trattati dallo studio, sia in versione “esplicita” per quelli già pubblici (comunicati alla stampa, ad esempio, dall’azienda cliente o su sua richiesta), sia in versione “censurata” e non riconducibile, ovvero confidenziale. Il lavoro è complesso, perché si tratta di far emergere particolarità di un caso che di solito restano note (o comprensibili) solo ai tecnici ed ai diretti interessati: unicità di una questione, complessità, impatto sul mercato, effetto sugli obiettivi strategici dell’azienda, ribaltamento giurisprudenziale. Teniamo a mente: stiamo parlando – nella maggior parte dei casi – di avvocati d'affari che lavorano (o potrebbero essere scelti per lavorare) con aziende che chiedono e a cui è richiesta trasparenza dal mercato anche globale, una trasparenza che spesso include il nome dei legali che hanno seguito le operazioni.Inoltre, prendere il premio o posizionarsi non è semplice. Anche nel caso specifico che ha generato lo scandalo – approfondendo – si noterebbe una pletora di grandi nomi arrivati in finale, paganti il tavolo, che sono tornati a casa con un pugno di mosche (e lo so perché poi inizia a squillarmi il telefono). Certamente sì: esistono anche i Predatory Prize. Sì, i criteri di assegnazione non sono sempre limpidi e/o dettagliatamente esplicitati, ho avuto più di una volta questa sensazione. Ma non si può ridurre la questione ad un totale mercimonio senza i giusti distinguo e parlando per sentito dire o il poco che si è esperito. Si rischia di richiamare alla mente la storia della volpe e dell’uva, mi addolora dirlo. È fuor di dubbio, nel caso che ha dato la stura a questo dibattito, che ci sia stato un grossolano errore in fase giudicante da parte della rivista o giuria o quel che sia (quando si parla di contenzioso è necessario che si approfondisca la fase di giudizio della pronuncia, ed in ogni caso che i criteri di analisi si facciano più stringenti), una più improvvida comunicazione da parte dello Studio (n.b. gestire le relazioni pubbliche, comunicare, sono competenze specifiche di professionisti all’uopo formati) la cui rispondenza a criteri di veridicità, corretta informazione e decoro andrà valutata nelle opportune sedi, ma ingaggiare – di nuovo – una battaglia di valori tra chi difende l’onore della professione e chi lo danneggia è miope e fa male a tutti (tutti gli avvocati italiani, per gli altri... Campo libero, regaliamo un pezzo di PIL, mettiamo i freni agli studi d’affari che generano oltre l’80% dei contributi di Cassa). Concludendo, a mio avviso bisogna mettere mano al problema, il che significa: dalla prospettiva delle istituzioni forensi regolamentare la fattispecie, da quella di editori e società di analisi e ricerca di mercato essere del tutto trasparenti, ligi e vigili nei criteri di aggiudicazione, magari ampliando le giurie con l’inclusione di figure forensi istituzionali a garanzia del processo e della valutazione. Ovviamente occorrerebbe rivedere il tema della disclosure dei mandati e dei nomi dei clienti ove vi sia il consenso espresso, questione anacronistica e di fatto aggirata.