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FRANCESCO GRECO PRESIDENTE CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE
Riportiamo di seguito la relazione integrale del presidente Francesco Greco alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2025 del Consiglio Nazionale Forense celebrata a Roma lunedì 7 aprile.
Prima di procedere ai saluti istituzionali, prego di consentirmi di rivolgere un sentito ringraziamento al Magnifico Rettore dell’Università Pontificia Antonianum, Reverendo Padre Agustín Hernández Vidales, che oggi ci ospita e che al termine della nostra inaugurazione ha accettato l’invito a celebrare la Santa Messa in suffragio dell’Avv. Prof. Guido Alpa, Presidente Emerito del Consiglio Nazionale Forense, nella odierna giornata del trigesimo dalla sua scomparsa (...).
Credo di potere affermare, senza tema di smentita, che quest’anno la nostra inaugurazione dell’anno giudiziario ricade in una fase mondiale particolarmente complessa - forse pari solo a quella degli anni della pandemia - che mai ci saremmo immaginati di dovere vivere. Un contesto in cui sono in corso guerre per la conquista di territori appartenenti a Stati sovrani occupati militarmente da potenze militari confinanti. Un contesto in cui l’economia globale, alle cui regole eravamo abituati, improntante al libero scambio delle merci ed alla concorrenza globalizzata dei mercati, rischia di essere messa in crisi dai dazi incrociati tra Paesi, che alla fine si rifletteranno in un aumento dei costi a carico dei cittadini e dei consumatori di tutto il mondo. Un contesto in cui le libertà fondamentali della persona riconosciute dalla Cedu e dalla nostra Costituzione rischiano, come mai, di essere seriamente compromesse.
Andiamo incontro ad una vera trasformazione della nostra società, determinata da una moltitudine di fattori tra loro eterogenei. Alcuni esterni al sistema di tutela dei diritti, ma destinati ad influenzare l’efficacia dei sistemi giudiziari. Mi riferisco, oltre alle tensioni internazionali cui ho fatto cenno, alla compressione del libero esercizio del diritto di difesa, se è vero, per come è vero, che l’attività del difensore è seriamente compromessa da una consapevole, in taluni casi, o inconsapevole, in altri casi, confusione del ruolo dell’avvocato con quello del suo assistito. Confusione di ruoli che ha portato, appena lo scorso marzo, allo scioglimento dell’Ordine Forense di Istanbul ed all’arresto di un suo componente, accusato semplicemente di essere il difensore di un esponente politico di opposizione.
Diritti di difesa a rischio anche nel nostro paese
Mi riferisco, altresì, a quanto accade nel nostro Paese, in cui la violenza dialettica, e purtroppo talvolta non solo dialettica nei confronti dei difensori di soggetti imputati di reati particolarmente ripugnanti, porta a identificare il difensore con l’imputato e a rivolgere gli strali contro l’attività dell’avvocato; ciò avviene nei social media, oggi pervasi da populismo, ma anche qualche volta nei programmi televisivi, rivolti alla ricerca di auditel più che di vera comunicazione; nonostante la nostra Costituzione preveda che chiunque ha diritto a un processo giusto, che solo la presenza di un difensore può garantire.
Poi ci sono i fattori interni al sistema di tutela dei diritti, che a mio avviso mettono seriamente in crisi i principi ordinamentali del nostro Paese, permeati sullo Stato di diritto, che dovrebbe avere la sua concreta traduzione nella possibilità di ciascuno di avere piena tutela sia dei diritti fondamentali che di quelli che nascono dalla vita quotidiana. In questo contesto generale credo che l’avvocatura debba porsi seriamente la domanda se la nostra funzione di difensori sia libera di essere espletata.
Il disagio che noi avvocati proviamo nello svolgimento della nostra funzione - e preciso funzione e non semplicemente lavoro - si riflette nello smarrimento che i cittadini oggi avvertono, nei quali si è diffuso un sentimento che va dalla sfiducia verso il sistema giudiziario a una vera e propria insofferenza verso i protagonisti della giurisdizione.
L’ultima riforma del processo civile, comunemente denominata “Riforma Cartabia”, ha reso abissale la distanza dei cittadini dal processo (rectius, dagli avvocati, che dei cittadini sono i rappresentanti). Le norme approvate con la cosiddetta Riforma Cartabia, cui vanno aggiunte quelle imposte per raggiungere gli obiettivi assegnati con il Pnrr, per finire recentemente con quelle inserite nella legge di Bilancio per il 2025, hanno profondamente inciso sulla giurisdizione, e sulla giustizia.
Con la legge di Bilancio 2025 - attraverso la leva fiscale – il legislatore ha dettato regole sulla proponibilità delle azioni giudiziarie, e nel processo amministrativo addirittura si è spinto ad introdurre una “sanzione” economica, quale contropartita all’inammissibilità del ricorso, nell’ipotesi in cui il difensore abbia scritto difese eccessivamente lunghe, senza a ciò essere stato “preventivamente” autorizzato dal Giudice.
Non c’è dubbio che i nostri scritti difensivi devono essere ispirati alla sinteticità, anche al fine della stessa loro qualità. Ma quello che sottopone la lunghezza delle difese alla preventiva autorizzazione del Giudice è un principio che più volte ho definito, senza mezzi termini, di inciviltà giuridica e di oscurantismo giudiziario.
Il processo, come sappiamo, tende all’accertamento della verità processuale, piuttosto che a quella storica. Tuttavia, pur comprendendo il compromesso di un processo che sebbene riguardi “diritti” si accontenta di ciò che promana dagli atti processuali, dobbiamo domandarci se sia ammissibile che il percorso verso la verità, seppur processuale, passi per le strettoie di regole procedurali oggi divenute estremamente stringenti, quasi asfittiche, oserei dire.
La riforma del rito civile, chiudendo, di fatto, le porte dei Palazzi di Giustizia agli avvocati, ha costruito il paradosso di un “processo senza il processo”, di “un contraddittorio senza contraddittori”, di un “dibattimento senza qualcuno che dibatte”. Le sezioni civili dei tribunali italiani sono vuote, e i cittadini hanno perso consapevolezza di come viene amministrata la giustizia. Il Giudice è diventato una realtà invisibile, intangibile. L’abuso – perché di questo si tratta – del sistema della trattazione scritta nel processo civile, colpisce il contradditorio e il diritto di difesa nella sua essenza più profonda.
Chiediamo l’abrogazione delle norme che ci hanno allontanato dai tribunali
Non siamo più disponibili a vedere mortificato il processo, nel quale i diritti dei cittadini dovrebbero trovare la completa, totale, adeguata tutela. Penso che si sia arrivati al punto in cui l’Avvocatura tutta debba chiedere l’abrogazione delle norme che ci hanno allontanato dai Palazzi di Giustizia e che non consentono alle parti che vogliono assistere alla trattazione del processo, ove si argomenta dei loro diritti – e sottolineo, diritti -, di avere contezza di come la causa si svolge, di come il Giudice esamina e conosce i fascicoli di causa.
I cittadini e gli avvocati hanno diritto di discutere di persona con il Giudice e non di farlo attraverso atti inviati per mezzo di un portale. Il processo ha perduto la sua essenza di luogo della giurisdizione ove si amministra la giustizia, per trasformarsi in una sorta di procedimento amministrativo. Tutto ciò in nome della celerità e del Pnrr, a discapito dei principi fondanti lo Stato di diritto.
Come quella parte della riforma, sempre inserita nella riforma Cartabia, che ha previsto di spostare dai Tribunali agli Uffici del Giudice di Pace la quota più consistente delle controversie civili, attraverso l’aumento della competenza per valore fino a 50.000 euro, pur sapendo che i Giudici di Pace vengono reclutati non attraverso un pubblico concorso ma con selezioni per titoli e ben conoscendone le carenze organizzative e strutturali ed i vuoti di organico attuali. Al riguardo devo esprimere gratitudine per il rinvio dell’entrata in vigore della riforma sull’aumento della competenza per valore, che il Ministero della Giustizia si è impegnato a disporre.
Nel processo penale, pur comprendendo la necessità di fare partire il processo telematico e le disfunzioni che inevitabilmente insorgono nella fase di avvio della trasformazione da un processo cartaceo ad uno telematico, non si può non evidenziare che ancora gli uffici, nel loro complesso, non sono pronti. E non possiamo ostinarci a dar partire una riforma con gli uffici che non sono ancora pronti.
Alla luce di tutto ciò credo sia giunto il momento di chiederci se il principio costituzionale del “giusto processo”, di cui all’articolo 111 della Costituzione, trovi attuazione innanzi la giurisdizione italiana o se, invece, dai suoi principi ci si è consapevolmente allontanati.
Servono sanzioni per chi fa scrivere le sentenze all’IA
Il tema del “giusto processo” interessa pure il dibattito sull’intelligenza artificiale applicata alla giurisdizione. L’ingresso della tecnologia in tutte le discipline del genere umano è inarrestabile e non possiamo che augurarci che la scienza, la tecnica e la medicina riescano, attraverso la sua applicazione, a migliorare la qualità della vita. Ma nel campo dei diritti, dobbiamo domandarci se può essere “giusto”, nel senso costituzionalmente orientato, il processo governato dall’Intelligenza Artificiale. Non nella parte organizzativa, ovviamente, né in quella che concerne l’approfondimento dello studio degli atti. Mi riferisco alla redazione dei provvedimenti giudiziari.
Esprimo soddisfazione per avere letto nella bozza di disegno di legge governativo, già approvato in Senato, che non è previsto l’uso dell’intelligenza artificiale nella redazione degli atti giudiziari. Però, mi permetto di osservare, manca la previsione del destino del provvedimento giudiziario redatto con l’ausilio della macchina, in violazione della disposizione che non ne consente l’uso, e anche delle conseguenze per chi abusivamente la utilizzi per scrivere le sentenza. Perché qualcuno, per la redazione dei provvedimenti, l’intelligenza artificiale ha iniziato ad usarla, come solo sottovoce ha il coraggio di ammettere.
Non occorre soffermarsi sulla diversità delle discipline scientifiche rispetto a quelle giuridiche per concordare che laddove si discute della persona, della comprensione della ragione delle scelte del singolo e della valutazione dei comportamenti, la decisione non può essere algoritmica ma deve essere frutto del convincimento interiore del giudice. Solo la forza intrinseca di una adeguata e ponderata motivazione di ogni provvedimento può garantire il rispetto del “giusto processo”.
Il carcere non può essere luogo di tortura di Stato
Altro tema che in questa occasione non posso non affrontare riguarda la grande preoccupazione, già denunciata in precedenti occasioni, per la situazione carceraria e le condizioni di vita dei detenuti. Parliamo di persone, non di cose o merci. Siamo già arrivati a 25 suicidi nel 2025. È un problema che richiede la massima considerazione e la massima urgenza di intervento. Chi ha violato la legge è giusto che espii la pena, ma nel rispetto della dignità umana. Il carcere non può essere un luogo di tortura di Stato.
Occorre pensare urgentemente all’edilizia giudiziaria; che non significa necessariamente aumentare il numero delle carceri, anzi tutt’altro, ma rendere meno disumane le strutture esistenti. Si deve e si può intervenire, in breve tempo, sull’ampliamento degli istituti a custodia attenuata già esistenti nonché prevederne ulteriori. Sul sistema sanzionatorio, occorre ridurre il ricorso alla carcerazione come unico strumento di espiazione, ampliando le fattispecie di applicazione delle misure alternative. Occorre, inoltre, ridurre quanto più possibile le ipotesi di carcerazione preventiva, ricorrendo alle altre misure applicabili.
Custodiamo lo stato di diritto, lo dica la legge professionale
Nel concludere questo mio intervento non posso tacere il grande sforzo che tutte le componenti dell’Avvocatura hanno fatto – cui va un sentito ringraziamento per l’impegno profuso - per redigere la proposta di riforma dell’ordinamento forense, che presenteremo al Governo e alla politica chiedendo che si prenda atto della nostra richiesta di dotarci di una legge forense rivolta a regolare la professione del futuro e nel futuro.
In attesa che venga mantenuto l’impegno, già assunto dal Ministro della Giustizia, ma anche dagli esponenti delle forze politiche di maggioranza e di opposizione, di avere riconosciuto in Costituzione, in modo formale, la necessità della presenza del difensore nel processo, al fine di garantire la difesa tecnica e riequilibrare il ruolo delle parti, abbiamo tracciato una proposta di riforma che non ha voluto rappresentare una mera revisione della legge vigente, ma disegnare il nostro ruolo nella società.
Il nostro impegno è stato rivolto a migliorare le condizioni di esercizio della professione degli avvocati italiani, non solo nell’ambito del processo ma anche fuori del processo, essendo certi che una avvocatura indipendente, autonoma, libera, forte, non condizionata nel suo operare e non mortificata sul piano economico e reddituale non può che contribuire a costruire una società migliore.
Il disegno complessivo della riforma muove dalla consapevolezza che l’evoluzione della professione forense è stata segnata, nei dodici anni di applicazione della legge 247/2012, da trasformazioni profonde sia della società che della giurisdizione. Ciò ha modificato sensibilmente la nostra professione e il suo ruolo in una società in rapida trasformazione. In questo contesto abbiamo pensato al richiamo ai valori dell’indipendenza e della libertà, riaffermando che “la professione di avvocato è libera e indipendente, partecipa alla realizzazione della giustizia e alla difesa dei diritti e delle libertà, e vigila sul rispetto dei principi dello Stato di diritto”.
Il riferimento allo Stato di diritto nella nostra legge professionale è una novità significativa: l’avvocato deve essere indipendente come il magistrato. La libertà dell’avvocato è condizione della libera interpretazione del diritto oggettivo, il più prezioso fattore di trasformazione in senso evolutivo delle forme giuridiche di tutela dei diritti e degli interessi degli assistiti.
Abbiamo ritenuto che l’avvocato non debba limitare la sua azione all’ambito dei circuiti giudiziari, ma piuttosto estendere il suo ruolo di garanzia in tutti i contesti, anche non giudiziali e alternativi alla giurisdizione, ove è in ballo la tutela dei diritti.
In materia di accesso alla professione, abbiamo previsto di ridurre le modalità alternative di tirocinio, nel tempo proliferate in diverse norme speciali, riaffermando che il tirocinio si svolge innanzi tutto nella pratica presso uno studio legale, sotto la vigilanza e la guida di un avvocato, oltre che nella proficua frequenza di un corso professionalizzante. Abbiamo riscritto la disciplina del segreto professionale, riconducendolo a quello che riteniamo sia il suo alveo naturale, ovvero un istituto di ordine pubblico, collocandolo tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico e immaginandolo come inviolabile e indisponibile tanto per l’avvocato quanto per il suo assistito.
In tema di forme di esercizio della professione, abbiamo voluto prevedere una ampia ed esaustiva disciplina dell’associazione professionale, oggi praticamente priva di regolazione, nonché previsto le reti tra avvocati e le reti multidisciplinari come nuove forme di collegamento al fine di incentivare la collaborazione e l’integrazione tra le diverse competenze che connotano una professione ormai sempre più specializzata.
È stata rivista anche la materia delle società tra avvocati e delle società multidisciplinari, ed è stata prevista la regolazione della disciplina di un fenomeno del tutto nuovo, ma sempre più frequente, quale la monocommittenza. Abbiamo ripensato in modo fortemente innovativo anche al regime delle incompatibilità, al fine di offrire agli avvocati l’opportunità di allargare il proprio ambito di attività, quali quella di amministratore di società di capitali. Sul piano delle istituzioni forensi, abbiamo ipotizzato la razionalizzazione degli albi professionali, nonché la revisione della disciplina elettorale.
Vicini ai cento anni dall’istituzione del Cnf
Concludo questo mio intervento ringraziando i colleghi del Consiglio Nazionale Forense per il grande impegno nello svolgimento del nostro ruolo di guida dell’Avvocatura italiana, coadiuvati dal nostro eccellente Ufficio studi e dai nostri collaboratori amministrativi, ricordando che nel 2024 abbiamo celebrato i 150 anni dalla approvazione della Legge del 1874 di fondazione dell’ordine forense italiano. Lo abbiamo fatto ripercorrendo, con un breve video, il contributo dato dall’Avvocatura italiana nel percorso di fondazione dei valori basilari della nostra Repubblica.
L’anno prossimo, nel 2026, ricorreranno i cento anni dalla fondazione del Consiglio Nazionale Forense, allora, nel 1926, denominato Commissione Reale Superiore, con incarico di esercitare le funzioni di Consiglio Superiore Forense. A quel primo Consiglio Nazionale Forense, presieduto da Vittorio Scialoja e composto da grandissimi avvocati quali De Marsico, Rocco, Carnelutti, Ungaro, Vivante, Fabbri, Arcangeli, ma anche a tutti coloro che nei successivi quasi cento anni di storia del Consiglio Nazionale Forense hanno guidato l’Avvocatura italiana, vorremo dedicare il nostro impegno, che sarà sempre, instancabilmente, inderogabilmente, immancabilmente rivolto alla tutela dei diritti, al fianco dei cittadini ed al servizio del nostro Paese.