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Laga e Foglieni
Si potrebbe parlare di “tornante della storia”, per dirla con un’espressione di moda qualche anno fa. Certamente nel futuro dell’avvocatura si intrecciano più direttrici di cambiamento: la riforma previdenziale da poco in vigore e la legge professionale in via di ridefinizione presso i tavoli post congressuali, aperti al Cnf. In uno scenario in cui campeggiano il fascino ancora un po’ oscuro dell’intelligenza artificiale e la richiesta di ricalibrare le recenti riforme del processo, in particolare la “Cartabia civile”.
C’è, sì, soprattutto lo sfondo di un disagio diffuso per la professione forense, ma c’è anche la necessità di accettare nuove sfide, come ricorda puntualmente nei propri interventi il presidente del Cnf Francesco Greco. Dal clima di attesa e anche di “tensione” che si percepisce nell’avvocatura, trae spunto questo mini- ciclo di colloqui che il Dubbio apre fra diverse componenti e rappresentanze della professione, in particolare su come previdenza, fiscalità e legislazione possano favorire le diverse forme di esercizio dell’attività. Si parte con due figure in apparenza lontane, quanto a interessi e prospettive: il presidente dell’Associazione degli studi legali associati (Asla) Giovanni Lega e il numero uno dell’Associazione italiana giovani avvocati (Aiga) Carlo Foglieni. A loro abbiamo rivolto le tre stesse domande.
Quali potrebbero essere le modifiche della legge professionale in grado di favorire le diverse forme di esercizio dell’attività di avvocato?
Giovanni Lega (Asla). «Teniamo presente che oggi le alternative all’esercizio della professione in forma individuale si riducono a due: l’associazione professionale e la società tra avvocati. Sono due opzioni evidentemente necessarie, alla luce del mercato, delle reali prospettive a cui la professione oggi può guardare, ma presentano ciascuna degli svantaggi, o comunque dei limiti. Nel caso della semplice associazione professionale, i soci sono tassati come avviene con qualsiasi reddito da lavoro autonomo, qualsiasi utile va distribuito e non esiste possibilità di accantonare riserve in modo strutturale. Anche quando parliamo di studi associati composti da 300 professionisti, e ci si trova di fronte a volumi d’affari analoghi a quelli di un’impresa, restano quei limiti: non si può accantonare neppure il necessario a liquidare un socio che dovesse uscire. Eppure all’associazione professionale si applica l’Irap, cosa non prevista per chi esercita in forma individuale. Nel caso delle società tra avvocati, le Sta, il problema è inverso: si può mettere fieno in cascina, si è tassati con l’Ires anziché con l’Iref, ma i dividendi possono essere redistribuiti tra i soci solo a fine esercizio.
Nel frattempo naturalmente tutti devono poter ottenere dei corrispettivi, ma l’unica possibilità prevede che il singolo socio emetta fattura nei confronti della Sta, con inevitabile duplicazione del contributo integrativo del 4 per cento. Quel contributo previdenziale è già versato dalla Sta al momento di emettere fattura nei confronti del committente vero e proprio, del cliente finale. Quindi se parliamo di una Sta che fattura 10 milioni, e che già versa il 4 per cento, 400mila euro di contributi, quella stessa società, nel pagare le fatture ai propri soci per un ammontare, poniamo, di 3 milioni l’anno, dovrà versare il 4 per cento pure su quei 3 milioni. Fanno altri 120mila euro, che innalzano la percentuale del contributo, di fatto, da 4 a 5,2. Restiamo convinti che si tratti di un meccanismo ingiusto».
Carlo Foglieni ( Aiga). «Il panorama credo sia chiaro, e da anni Aiga lo interpreta nel senso di chiedere incentivi e semplificazioni per l’esercizio della professione in forma aggregata. Basta guardare i dati: è vero che il 60% degli avvocati esercita ancora in forma individuale, ma questo spiega almeno in parte anche le difficoltà in cui versa oggi la nostra professione. Si tratta di quella fascia maggioritaria che lavora in prevalenza sul contenzioso giudiziale. Se però guardiamo agli under 40, scopriamo che quest’ultimo segmento ricava dall’attività di consulenza o di assistenza alle imprese quasi il 60 per cento del fatturato. Sono i dati Censis, frutto forse anche dell’impegno che Aiga investe nel sostenere e formare i colleghi in vista di queste nuove e più promettenti prospettive. Ora, è chiaro che consulenza e assistenza richiedono anche una profondità di competenze possibile solo con le specializzazioni. Ebbene: se specializzazione e aggregazione sono, come si può intuire, due facce della stessa medaglia, vanno favorite le associazioni professionali in cui gli avvocati possano incontrarsi anche con altre figure, dai commercialisti agli ingegneri. Ma soprattutto per l’avvocatura giovane, si tratta di prospettive che richiedono una diversa disciplina delle reti fra professionisti. Oggi le associazioni professionali e le società tra avvocati sono troppo onerose. Tanto più che il regime fiscale forfettario del 15 per cento non è compatibile con le aggregazioni. Va dunque innanzitutto risolto il nodo dell’iscrizione al registro delle imprese: non andrebbe previsto per le nostre reti, che altrimenti gli avvocati non potranno mai adottare come forma di aggregazione. Le reti di avvocati dovrebbero potersi registrare semplicemente all’Ordine territoriale. Sul punto abbiamo già presentato una proposta con il deputato della Lega Jacopo Morrone».
Alla luce di quanto avete già esposto, quali dovrebbero essere le altre modifiche relative alle società tra avvocati?
Giovanni Lega (Asla). «Ci sono due possibilità, suggerite da quanto avviene in quasi tutte le altre libere professioni, nel nostro Paese, esclusi i geometri e, appunto, noi avvocati. Consentire alle Sta di dedurre, dal loro montante contributivo, il 4 per cento pagato ai soci che periodicamente fatturano nei confronti della società stessa, oppure prevedere che quella trattenuta previdenziale non sia imposta per i pagamenti fra avvocati. Si consideri che quel meccanismo duplicativo ricorre anche nei compensi versati ai colleghi domiciliatari. Di certo, con l’attuale meccanismo previdenziale, le Sta si trovano a versare un doppio, iniquo contributo del 4 per cento a beneficio di quegli avvocati, oltre la metà, che dichiarano redditi minimi, anche al di sotto dei 10mila euro. Ripeto: le forme aggregate sono le sole davvero competitive, ma anziché incoraggiarle le si penalizza anche con l’impossibilità di diventare socio di una Sta per gli avvocati che scelgono il regime forfettario».
Carlo Foglieni Aiga). «Oltre all’impossibilità di mantenere il regime fiscale forfettario, le Sta prevedono la doppia imposizione contributiva del 4 per cento che, soprattutto per i giovani, crea un ostacolo spesso insormontabile. Al nostro congresso di Napoli abbiamo approvato una mozione con cui si chiede di modificare il meccanismo in modo che la doppia imposizione del 4 per cento scompaia, nel senso che la società tra avvocati deve poter dedurre, dal proprio montante, i contributi integrativi fatturati dai singoli soci alla Sta stessa. Considerata l’incidenza che una simile modifica può determinare sui conti di Cassa forense, abbiamo chiesto che tale deducibilità venga circoscritta agli avvocati under 45. In tal modo si incentiverebbero sia giovani a costituire società con altri avvocati, sia i grandi studi ad accogliere un maggior numero di colleghi giovani» .
Ritenete sia necessario regolare la cosiddetta “monocommittenza”?
Giovanni Lega ( Asla). È assolutamente necessario. La monocommittenza costituisce un altro nodo incomprensibilmente irrisolto, e lo è da 30 anni. Qui torniamo al discorso di partenza: i contributi pagati all’avvocato che lavora, per uno studio, in regime di monocommittenza dovrebbero essere dedotti dal montante dello studio. Noi come Asla abbiamo presentato un articolato che la responsabile Professioni dell’attuale partito di maggioranza relativa, Marta Schifone di FdI, aveva apprezzato, recepito e proposto di inserire nel decreto Lavoro 2023. Si è arenato tutto. Regolare la monocommittenza significherebbe assicurare finalmente sacrosante tutele a quei giovani colleghi che oggi non ne hanno».
Carlo Foglieni ( Aiga). «Come si può immaginare, si tratta di una lunga battaglia di Aiga. Affidata a una mozione passata al congresso nazionale forense di Catania con una maggioranza qualificatissima, dei due terzi, ma che poi, alla sessione ulteriore di Roma, abbiamo preferito riformulare, con successo, in modo che la monocommittenza sia inserita nella nuova legge professionale, con rinvio a un regolamento del Cnf che stabilisca i requisiti minimi».