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Tremiladuecento avvocati in meno rispetto all’anno precedente. Professione che dunque per la prima volta dopo 37 anni si contrae. È il dato più clamoroso del Rapporto sull’avvocatura 2022, curato da Cassa forense in collaborazione con il Censis, e presentato oggi a Roma, alla presenza dei rappresentanti di istituzioni e associazioni forensi e del sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto. Dopo i saluti del presidente dell’istituto previdenziale, Valter Militi, che ha ringraziato i 30mila avvocati coinvolti nella ricerca del Censis, e sottolineato l’utilità del Rapporto «per mettere a punto misure più adeguate alle necessità degli avvocati», è stato letto il messaggio inviato da Maria Elisabetta Alberti Casellati, presidente del Senato, che ha particolarmente apprezzato «la specifica sezione sull’avvocatura femminile», utile, ha ricordato, per comprendere quali siano «le problematiche con cui le donne che intraprendono la professione si devono confrontare». Si sono poi succeduti una decina di interventi, tutti introdotti e coordinati con competenza da Maria Carla De Cesari, giornalista del Sole-24 Ore. Andrea Toma, responsabile Lavoro del Censis, ha messo in evidenza i principali “numeri” dell’avvocatura, dando quindi l’assist agli interventi successivi. Il segretario generale del Censis Giorgio De Rita ha offerto una chiave di lettura sull’evoluzione della professione forense secondo cui la riduzione del numero di avvocati verificatasi nel 2021, in controtendenza rispetto al passato (dal 1985 al 2020 il dato era cresciuto costantemente, da 37.495 a 245.030), potrebbe rappresentare «il segnale che un lungo ciclo sia giunto al termine, e che se ne possa quindi aprire un altro, presumibilmente basato su un nuovo modello di business, che possa dare nuove prospettive, anche reddituali». Marisa Annunziata, consigliera di Cassa Forense, ha ipotizzato che la difficoltà possa essere dovuta anche a una «scarsa conoscenza della professione, che potrebbe però essere promossa dallo stesso istituto». Da parte sua Benedetta Zambon, delegata della Cassa, ha evidenziato come uno dei punti deboli della professione sia l’enorme differenza reddituale tra uomini e donne, con queste ultime che vantano in media un reddito (23.392 € nel 2020) inferiore alla metà di quello dei colleghi maschi (50.508), mentre va visto positivamente l’aumento significativo della presenza femminile nella professione, che è passata dal 7% del 1981 al 48% nel 2021. Un punto debole futuro potrebbe essere invece il rapporto pensionati/avvocati attivi che, se oggi è ancora favorevole (a fine 2021 vi erano 30.863 pensionati a fronte di 241.830 iscritti), non si può escludere possa peggiorare, considerata la tendenza alla riduzione degli attivi e il futuro aumento di chi è in pensione: ora gli avvocati che hanno più di 55 anni sono oltre 50.000. Conclusa la presentazione dei dati, il dibattito è partito dall’intervento della presidente del Cnf Maria Masi, alla quale è stato chiesto come si può rispondere alle difficoltà dei giovani professionisti, e delle donne avvocato, essendo i primi alle prese con un processo formativo molto lungo e redditi contenuti (gli avvocati sotto i 30 anni hanno registrato nel 2021 un reddito medio di 13.274 euro), e le seconde con un reddito molto inferiore a quello degli uomini. Masi ha riconosciuto che alle problematiche strutturali della professione, come il percorso formativo lungo, se ne sono aggiunte altre di natura congiunturale, come il covid. Tutto questo, per la presidente del Cnf, ha prodotto «una scelta diversa da parte di molti giovani, che hanno preferito percorsi professionali diversi da quelli dell’avvocatura», e per questo bisognerà «lavorare su una riforma dell’accesso alla professione, che preveda una collaborazione più stretta tra avvocatura e università, per una migliore acquisizione delle competenze specialistiche, fermo restando la centralità del rapporto di fiducia cliente-avvocato». Una soluzione per il futuro è stata proposta anche da Sergio Paparo, coordinatore dell’Ocf, che immagina forme aggregative tra professionisti, ognuno con una specializzazione diversa, attraverso, per esempio, il «contratto di rete», che potrebbe permettere la creazione di un network di piccoli studi. Mentre, a partire dalle considerazioni di Masi, Tatiana Biagioni, presidente di Avvocati giuslavoristi italiani, ha concordato sul fatto che «non ci debba essere contrapposizione tra il rapporto fiduciario con il cliente e la specializzazione», e ha ricordato: «La specializzazione è soprattutto una questione di competenza specifica, un tema oltretutto molto sentito dai giovani», e ha riconosciuto che «la figura dell’avvocato generalista avrà un ruolo diverso». Quindi ha fatto un appello sulla «centralità del ruolo delle donne avvocate, la visibilità e la rappresentanza». Sulle possibili ragioni della riduzione del numero di avvocati, è tornato Giampaolo Di Marco, segretario generale dell’Associazione nazionale forense, secondo il quale è innegabile la perdita progressiva di fascino della professione di avvocato, a cui si aggiunge la circostanza che ora i giovani si rendono conto prima se sono tagliati o meno per la libera professione. Anche Francesco Paolo Perchinunno, presidente di Aiga, ha ammesso che la professione di avvocato è «in difficoltà», come prova il dato, apparentemente clamoroso, emerso dalla ricerca, ossia che un avvocato su 3 pensa di non continuare l’attività (32,8%), tanto che, citando un messaggio ricevuto, può essere vero che «gli altri 2 avvocati (su 3) mentono quando dicono che vorrebbero continuare la professione...». Riguardo l’origine delle difficoltà, va considerata «la concorrenza di altre professioni», come i commercialisti, che oggi si occupano anche di contratti. Inattesa è stata invece la risposta di Antonio de Notaristefani, presidente dell’Unione nazionale Camere civili), alla domanda di De Cesari, sulla possibilità che le Adr possano rappresentare un futuro per la professione: il leader dei civilisti ha segnalato che «solo il 4,4% è soddisfatto delle procedure di risoluzione alternativa delle dispute, per cui non da esse dovrebbe dipendere il futuro dell’avvocatura». Antonino La Lumia, presidente di Movimento forense, ha espresso la convinzione che la professione «sta cambiando pelle», per cui bisogna puntare alla creazione di «network tra professionisti, anche a livello internazionale». In chiusura del dibattito, Isabella Stoppani, consigliera Cnf e presidente dell’Associazione nazionale avvocati italiani, ha ricordato che si potrebbe arrivare a conclusioni più precise sulla condizione dell’avvocatura se fosse possibile conoscere «il profilo dei 30mila colleghi intervistati dai ricercatori». E a conclusione della giornata è intervenuto il sottosegretario Sisto, che dopo essersi reso disponibile a dare seguito alla richiesta del presidente di Cassa forense di recuperare gli 800 milioni di euro residui dallo stanziamento per l’esonero contributivo, per destinarli a misure per le libere professioni, si è impegnato a «promuovere in tutte le sedi la riduzione dei costi per i corsi di specializzazione degli avvocati», perché è vero che «ormai è difficile trovare giovani desiderosi di impegnarsi nella professione forense». Militi, concludendo i lavori, ha ricordato che c’è una «sperequazione» nel mondo dell’avvocatura «da sanare», come dimostra che l’1% degli avvocati più ricchi, producano il 25% del reddito dell’avvocatura, pari, a fine 2020, a 8,5 miliardi di euro.