Nel corso delle celebrazioni dei 150 anni della fondazione degli Ordini degli avvocati, in programma domani a Roma, nell’Auditorium della Tecnica, saranno ricordati alcuni personaggi che hanno dato lustro all’avvocatura italiana. Un viaggio nel tempo, lungo un secolo e mezzo, scandito da tappe fondamentali per la storia del nostro Paese.

Nel processo di unificazione dell’Italia Giuseppe Mazzini è stato un indiscusso protagonista. Il patriota genovese ha svolto per un periodo la professione forense. «È difficile dire – ha evidenziato sul Dubbio, nei mesi scorsi, il già presidente del Cnf, Guido Alpa - se il coraggio, l’abnegazione, l’intelligenza, l’operatività fossero coniugate al tipo di professione svolta: molti di loro, come Giuseppe Mazzini, l’hanno iniziata e poi abbandonata per inseguire i loro ideali, i loro progetti di vita che si sarebbero poi intrecciati con i destini d’Italia».

La storia dell’Italia – e questo sarà un filo conduttore dell’evento organizzato dal Consiglio nazionale forense – coincide molte volte con la storia dell’avvocatura. «È un fatto – aggiunge il professor Alpa - che nelle pagine degli storici molti dei protagonisti non sono ricordati come avvocati, ma piuttosto come uomini politici, di governo, delle istituzioni, quasi che l’essere avvocati fosse un dettaglio trascurabile. Per contro, molti che hanno offerto un contributo di pensiero, in quanto protagonisti della cultura giuridica italiana, hanno dato anche un contributo tecnico alla redazione delle leggi, dei codici, degli atti amministrativi, come Carrara, Zanardelli, Vivante, Scialoja, sono ignorati dagli storici generalisti perché ascritti alla storia del diritto, vista come marginale complemento della storia di più alto valore».

Con la nascita degli Ordini degli avvocati nel 1874, emerse l’esigenza di creare un organo collegiale centrale dell’avvocatura. Il 1926 fu un anno di svolta in tal senso: la legge n. 453, promossa dal ministro della Giustizia Alfredo Rocco, intervenne sulla professione forense. L’organo centrale dell’avvocatura, con sede in Roma presso il ministero della Giustizia e con funzioni di giudice di secondo grado in materia di iscrizione agli albi e disciplina degli iscritti, prese originariamente il nome di “Consiglio superiore forense”. L’entrata in funzione non fu però immediata.

La legge 25 marzo 1926 n. 453 stabilì che il “Consiglio superiore forense” fosse composto da 32 membri (16 eletti dalla classe forense, tra gli avvocati iscritti nell’albo speciale dei cassazionisti, e 16 nominati con decreto reale su proposta del ministro della Giustizia sempre tra gli avvocati cassazionisti). I primi 15 componenti vennero designati il 24 maggio 1926 dal guardasigilli Rocco. Tra questi Vittorio Scialoja, che ricoprì la carica di presidente, Cesare Vivante, Alfredo De Marsico, Francesco Carnelutti e Gaetano Grisostomi. Nel 1944 l’organismo centrale dell’avvocatura venne denominato “Consiglio nazionale forense”, eletto interamente dai Consigli dell’Ordine.

Il primo presidente dell’avvocatura istituzionale, Vittorio Scialoja, avvocato e professore universitario, fu uno dei massimi studiosi di diritto romano. Insegnò in diverse università, fra queste Siena e Roma “La Sapienza”. Nel 1912 venne eletto presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati della capitale per poi guidare, nel 1926, l’avvocatura istituzionale. La produzione scientifica di Vittorio Scialoja coprì numerosi campi. Andò dal diritto antico al diritto vigente, passando per la storiografia giuridica e la teoria generale, fino ad arrivare alla ricostruzione esegetica di casi, allo studio degli istituti privatistici e all’indagine attorno a problemi di filologia giuridica.

Tra i nomi dei grandi avvocati italiani non può non essere ricordato Piero Calamandrei, padre costituente e presidente del Consiglio nazionale forense. Calamandrei è stato professore di procedura civile a Siena dal 1919 al 1923 e con la nascita della facoltà di giurisprudenza a Firenze si trasferì nel capoluogo toscano. È stato anche rettore dell’Università di Firenze.

Autore prolifico, Calamandrei ha scritto un vastissimo numero di opere giuridiche. Fu pure parlamentare del Partito d’azione dal 1945 al 1953 e fece parte dell’Assemblea Costituente, fornendo preziosi contributi sulle materie dell’organizzazione e della laicità dello Stato, sull’indipendenza della magistratura e sulle libertà sociali. Alla fine della Seconda guerra mondiale l’avvocato fiorentino si dedicò anima e cuore alla Costituzione italiana, lasciando a tutti noi un tesoro di civiltà giuridica di inestimabile valore. Indimenticabili gli interventi di Calamandrei il 4 marzo 1947 e il 22 dicembre 1947 in occasione della votazione finale della Carta costituzionale.

Piero Calamandrei incarnò uno splendido esempio di giurista che vedeva nel diritto un’àncora di salvezza per l’umanità e per l’affermazione della giustizia. Principi non astratti, ma riferimenti chiari nella vita di tutti i giorni per ogni cittadino. Questo punto di vista lo troviamo nell’articolo intitolato “Cinquantacinque milioni”, pubblicato sul “Ponte” nel settembre 1945, poco dopo l’ecatombe nucleare di Hiroshima. Calamandrei non nascose le preoccupazioni in merito alla «gara di follia per carpire al sole il segreto degli atomi» e rilevò che «basterà qualche ritocco all’invenzione per avere a portata di mano l’arma onnipotente, pronta ad annullare tutto il genere umano, vincitori e vinti, in uno scoppio solo».

Secondo Calamandrei, la scoperta e l’utilizzo della bomba atomica aprirono un «argomento inconfutabile dell’interdipendenza tra i popoli», per cui «dall’interdipendenza nella morte deve nascere la coscienza mondiale della interdipendenza di tutti gli uomini nella vita». Non ci sono zone grigie; non ci sono vie di mezzo: «O la pace nella giustizia o l’esplosione cosmica nell’infinito di questa folle bolla di sapone iridata di sangue». Ieri, come oggi, in un mondo in cui la parola guerra è di nuovo dominante, le parole del maestro sono attuali.

La prima donna a ricoprire la carica di presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati, nello specifico quello di Bologna, fu Angiola Sbaiz. È ricordata per le grandi doti umane, oltre che per le grandissime competenze giuridiche. Allieva di Enrico Redenti, eminente studioso del diritto civile, Sbaiz si trasferì dal Friuli per raggiungere Bologna, dove rimarrà legata per sempre.

Il 1931 è stato un anno importante per Angiola Sbaiz. Dopo aver discusso la tesi nel mese di luglio, ha inizio il suo percorso nella professione forense. Nel 1934 si iscrive all’albo dei procuratori: è la nona donna a diventare procuratore a Bologna. Quando diverrà avvocato, il 7 febbraio 1941, risulterà la quinta a iscriversi nell’albo maggiore. Guiderà il Coa di Bologna dal 1978 al 1990. Tratto distintivo di Angiola Sbaiz la dedizione assoluta per la toga e l’attaccamento a una avvocatura “colta, responsabile, preparata e non indifferente”, l’avvocatura presidio imprescindibile per ogni Paese democratico. Quella di Sbaiz fu una fede nell’avvocatura considerata come una vera e propria “milizia civile”.

Alcuni discorsi di Angiola Sbaiz sono stati pubblicati nel 2008 in un volume della Fondazione Forense bolognese, a cura di Giuliano Berti Arnoaldi Veli (prefazione di Franzo Grande Stevens). Emergono temi che sembrano riguardare la vita dell’Italia di oggi. Già nel 1955 Sbaiz denunciò gli scarsi mezzi messi a disposizione della giustizia civile, un problema tuttora vivente della nostra giurisdizione. Grande attenzione venne rivolta alla difesa dei meno abbienti e alla centralità dell’avvocato in ogni democrazia. Nel 1965 si tenne a Milano l’ottavo Congresso nazionale giuridico forense.

Angiola Sbaiz intervenne sul tema “Tradizione e modernità”. Le sue parole sono a dir poco illuminanti: «L’aspetto più esaltante della missione dell’avvocato, sancito dalla storia forense, è nella lotta incessante contro l’ingiustizia nell’interesse non più del singolo soltanto, ma della società tutta. Questo è un dato ormai acquisito dalla tradizione e analizzato con rigore storico da quanti prima ancora di preoccuparsi delle definizioni dottrinali hanno dato atto del dramma indefinito delle lotte forensi. È in questo senso che va messo in evidenza l’incontro tra la funzione dell’avvocato e quella del giudice. Anche scontrandosi molte volte necessariamente per virtù di un processo dialettico insopprimibile, avvocati e giudici sono collaboratori entrambi a difesa della Giustizia e della Società».