Colpisce che la politica abbia riaperto il discorso sull’avvocato in Costituzione. Colpisce, certo, che sia avvenuto, in modo assolutamente bipartisan, all’evento organizzato venerdì 6 dicembre dal Cnf sui 150 anni degli Ordini forensi. Se ne potrebbe ricavare l’impressione di un omaggio tardivo, di un riconoscimento ideale ma privo, in prospettiva, di reali conseguenze. Può darsi sia così. Eppure ci sono segni che lasciano intuire un’intenzione più autentica, e dunque capace di dare frutti.

Intanto, cosa è successo? Alla cerimonia che il Consiglio nazionale forense ha tenuto dieci giorni fa a Roma, all’Auditorium della tecnica, la richiesta venuta dal vertice della massima istituzione dell’avvocatura, Francesco Greco, non ha riguardato affatto l’avvocato in Costituzione, né l’amnesia di cui è stato vittima, nel Consiglio dei ministri dello scorso 29 maggio, il comma relativo alla professione forense, inizialmente previsto dal guardasigilli Carlo Nordio nel proprio ddl. Greco ha chiesto un’altra cosa: una compartecipazione effettiva degli avvocati all’organizzazione della giustizia, al fianco dei magistrati. Un passo che l’avvocatura muove in una direzione ben precisa, e che la politica comincia a comprendere: in gioco c’è la necessità di dismettere, seppur gradualmente, le modalità telematiche di celebrazione dei processi, civili e penali, in favore di un progressivo ritorno degli avvocati, e delle parti coinvolte, nelle aule dei tribunali. In attesa che il legislatore, come auspica per esempio un viceministro della Giustizia di estrazione forense qual è Francesco Paolo Sisto, provveda ad accantonare l’eccesso di “trattazione scritta” ereditata dal covid e a ripristinare la presenza fisica nei processi, il presidente del Cnf ha detto: noi siamo i garanti dell’accesso alla giustizia e chiediamo intanto di essere coinvolti fin da subito nell’organizzazione, innanzitutto attraverso il confronto nei Consigli giudiziari. Si è fermato lì, il vertice di via del Governo vecchio.

Nella sua introduzione all’evento del 6 dicembre, non ha neppure pronunciato la frase “avvocato in Costituzione”. Lo hanno fatto, subito dopo, non solo un osservatore “terzo” come il vicepresidente della Consulta Giulio Prosperetti ma, soprattutto, il guardasigilli Carlo Nordio. È stato lui a promettere di rimediare, il prima possibile, all’esclusione della norma costituzionale sugli avvocati dal testo sulla separazione delle carriere. Dopo di lui hanno detto la stessa cosa, nell’ordine, il sottosegretario Andrea Delmastro, di FdI, la responsabile Giustizia del Pd Debora Serracchiani, la capogruppo 5S in commissione Giustizia alla Camera Valentina D’Orso, la senatrice della Lega Erika Stefani, anche lei capogruppo Giustizia, la presidente dei deputati di Italia viva Maria Elena Boschi e il forzista Pietro Pittalis, vicepresidente della commissione Giustizia di Montecitorio. Tutti d’accordo.

Cosa è cambiato rispetto al ricordato Consiglio dei ministri del 29 maggio 2024 in cui tutti e tre i partiti di governo ritennero che l’avvocato in Costituzione, se innestato nella già indigesta, per le toghe, separazione delle carriere, avrebbe rischiato di accentuare il senso di mortificazione nella magistratura? È cambiato il mood, lo spirito, la logica e anche il messaggio politico con cui il governo di Giorgia Meloni procede verso la riforma costituzionale della giustizia.

È ormai definitivamente acquisita la certezza che la separazione delle carriere dovrà passare per un referendum confermativo, in modo da ottenere dagli elettori un placet in grado di risolvere il pluridecennale conflitto tra politica e ordine giudiziario. Ma proprio perché la vittoria del sì confermativo a quel referendum dipenderà dal superamento della frattura che, sulla giustizia, si è aperta con Mani pulite, Nordio e la maggioranza si convincono ogni giorno di più che il “divorzio” giudici-pm vada affrancato dal paradigma vendicativo, troppo “berlusconiano”, troppo divisivo e perciò troppo rischioso per gli esiti della consultazione.

Separare le carriere è sì la via per depoliticizzare la magistratura e riportare l’equilibrio fra potere politico e potere giudiziario, ma nel quadro di un riassetto innanzitutto della giurisdizione, di un processo che sia più coerente con il codice Vassalli e il modello accusatorio. E allora la logica della riforma deve essere assai più pacificatoria. Stroncare lo strapotere dei pm è un obiettivo da preservare, intendiamoci, ma che va perseguito nella tutela del sistema giustizia, non certo con una guerra di potere. In questo riequilibrio, è evidente che l’inserimento dell’avvocato nella Carta, ora invocato da maggioranza e opposizioni, rappresenterebbe un clamoroso fattore di pacificazione. Riporterebbe lo schema della riforma costituzionale nel suo giusto perimetro: la distinzione del giudice dalle parti del processo, accusa e difesa. E soprattutto, nel rafforzare il ruolo dell’avvocato come coprotagonista della giurisdizione e come unica controparte della magistratura, realizzerebbe il “miracolo” di tenere al sicuro l’autonomia e indipendenza dei magistrati pur in un passaggio che indebolisce la loro (anomala) “forza politica”. L’alleanza fra avvocatura e magistratura nella giurisdizione vuol dire maggiore garanzia che l’autonomia dell’ordine giudiziario non sia minacciata dal potere politico.

Il Cnf lo sostiene da anni. Lo condivide, da molto tempo, un presidente emerito della Cassazione come Gianni Canzio. Ora che la separazione delle carriere va rielaborata – rispetto all’iniziale logica di riscatto della politica sulle toghe – come riordino costituzionale della giustizia, quelle verità, più o meno consapevolmente, riemergono dall’archivio delle rimozioni. Basterà? Non lo sappiamo. Ma certo, il lungo percorso verso il riassetto dell’ordine giudiziario dovrà per forza portare, anche per gli avvocati, delle novità ancora non del tutto prevedibili.