Dire che la battaglia si sia conclusa senza il minimo sacrificio sarebbe fuori luogo. Sul versamento “preliminare e obbligatorio”, per le cause civili, del contributo unificato, la maggioranza e il governo scelgono una soluzione di compromesso. Molto meno cruenta rispetto all’ipotesi iniziale, secondo cui, senza il pagamento “immediato” dell’intera somma, si sarebbe estinto il processo. Si sarebbe trattato di subordinare l’accesso effettivo al diritto di agire in giudizio per i propri diritti e interessi legittimi (articolo 24 della Costituzione) a un adempimento fiscale quantificabile, in base al valore della controversia, anche in diverse centinaia di euro, fino ai 1.686 euro dovuti, dalla legge (il dpR 115 del 2002), quando la posta in gioco è superiore a 520mila euro. Un muro, una “barriera blocca-processi” (cioè dal malcelato intento “dissuasivo”) per chiunque si fosse trovato in difficoltà economica anche temporanea pur senza “vantare” i requisiti per l’esenzione.

Alla fine, con la riformulazione approvata ieri notte in commissione Bilancio alla Camera, è andata molto meno peggio: per scongiurare l’estinzione della causa sarà necessario pagare solo un “acconto” pari ai 43 euro oggi richiesti, in totale, per le controversie di valore minimo. Di fatto poco più di una marca da bollo e nulla a che vedere con l’imposizione ostativa formulata, all’articolo 105, nel testo originario della Manovra, che il Consiglio dei ministri aveva partorito lo scorso 23 ottobre. Di contro, c’è un deciso irrigidimento dei margini di tolleranza nell’eventuale recupero forzoso della somma restante, da versare a “saldo”, del contributo. Accompagnato da un discutibile aggravio nel processo amministrativo qualora il difensore nei propri atti sfori, senza “preventiva autorizzazione” del giudice, i limiti dimensionali previsti dal codice.

Tanto per essere precisi, è il caso di riportare per esteso il contenuto della nuova norma. L’articolo 14 del dpr 115/ 2002, il Testo unico per le spese di giustizia, viene integrato con l’aggiunta, dopo il comma 3, di un nuovo comma 3.1, secondo cui “fermi i casi di esenzione previsti dalla legge, nei procedimenti civili la causa non può essere iscritta a ruolo se non è versato l’importo determinato ai sensi dell’articolo 13, comma 1, lettera a) (i 43 euro di cui si diceva, nda), o il minor contributo dovuto per legge”.

Viene quindi inserito un comma 3- bis all’articolo 248 del Testo unico, che recita: “Nei procedimenti civili, in deroga a quanto previsto dai commi 1, 2 e 3, nei casi di cui all’articolo 16, in ipotesi di mancato pagamento entro trenta giorni dall’iscrizione a ruolo o dal diverso momento in cui sorge l’obbligo di pagamento, l’ufficio o, nel caso di stipula della convenzione prevista dall’articolo 1, comma 367, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, la società Equitalia Giustizia Spa, procede all’iscrizione a ruolo del suddetto importo con addebito degli interessi al saggio legale e della sanzione di cui all’articolo 16, comma 1- bis”. Si procede, in termini analoghi, alla “riscossione spontanea a mezzo ruolo ai sensi dell’articolo 32 del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46. Si applica l’articolo 25, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602”.

Al punto di mediazione, la maggioranza è arrivata dopo un tiro alla fine che definire estenuante sarebbe molto riduttivo: si è partiti dalla proposta soppressiva presentata da Forza Italia, a prima firma del capogruppo Giustizia alla Camera Tommaso Calderone, e dagli analoghi emendamenti del Pd ( di Federico Gianassi in particolare), e del Movimento 5 Stelle, con la capogruppo in seconda commissione, Valentina D’Orso, quale firmataria.

Dall’altro lato, il categorico rifiuto del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, che aveva messo già in conto le maggiori somme così recuperabili (maggiori o, per meglio dire, recuperabili più in fretta...). In mezzo, il ministero della Giustizia guidato da Carlo Nordio e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, che si sono impegnati a trovare una soluzione. Nelle ultime ore – quando la commissione Bilancio di Montecitorio stava per licenziare e consegnare la Manovra all’Aula – si sono inseriti anche Fratelli d’Italia e Lega, con il meloniano Ciro Maschio che si è intestato la riformulazione definitiva. In questa versione finale è apparso l’aumento ( ino al raddoppio) del contributo unificato nel processo amministrativo, per gli “sforamenti non autorizzati” degli atti difensivi (sforamenti che il codice di rito “vieta” dal 2010).

Il compromesso è apparso inaccettabile all’opposizione. Lo hanno contestato i 5S per voce sia di D’Orso che dell’altra capogruppo Giustizia, la senatrice Ada Lopreiato, contrariate, fra l’altro, dalla “revoca” agli avvocati dei «margini di discrezionalità sulla necessità di superare i limiti dimensionali degli atti».

Dissenso netto anche da parte della responsabile Giustizia del Pd Debora Serracchiani e dal deputato dem Silvio Lai, secondo i quali «ancora una volta siamo di fronte alla giustizia negata da questo governo». Alcune rappresentanze forensi hanno manifestato, a loro volta, disappunto: per l’Ocf si è comunque introdotta «una vera e propria barriera fiscale alla domanda di giustizia, di dubbia legittimità costituzionale, indipendentemente dalla modesta entità della somma richiesta».

Mentre l’Associazione italiana giovani avvocati, per voce del presidente Carlo Foglieni, prefigura uno «svilimento della funzione difensiva, che non è quella di assumere la responsabilità dell’adempimento di oneri fiscali». L’Aiga ritiene che la «classe forense», di fronte alla «domanda di Giustizia», si ritroverebbe «moralmente obbligata ad anticipare gli oneri fiscali per conto degli assistiti». Ma rispetto al punto di partenza, e considerato il muro di gomma opposto per settimane da Giorgetti ad altri autorevoli rappresentanti della maggioranza, si può dire che il peggio è stato evitato.