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L’amore è onnipresente: rassicura sempre, anche quando rende infelici, persino quando uccide. L’odio è invece pudicamente nascosto. Presenza inquietante: non basta sconfiggerlo nel plot di turno per cancellarne l’ombra, bisogna ignorarlo, rimuoverlo, fingere che non esista e non determini il corso delle cose quasi quanto il luminoso sentimento opposto. Dai fratelli Lumière sino a oggi la quasi assenza dell’odio è sul grande schermo direttamente proporzionale all’onnipresenza dell’amore. Ci sono, anzi abbondano, antagonisti particolarmente malvagi ed efferati, ma la loro malignità vale a renderli odiosi, non odianti.
La galleria degli odiatori di celluloide presenta solo di rado, e come in folgoranti squarci, volti capaci di riflettere la titanica capacità di odiare di Ahab o l’ossessione sconfinante in mania persecutoria di Javert: l’impenetrabile Magua impersonato da Wes Study nell’Ultimo dei Mohicani di Michael Mann, tanto dominato dall’ossessione della vendetta da ricordare forse più di chiunque altro il folle nemico della balena bianca; la trasformazione da amante appassionata in maschera di implacabile pulsione assassina di Glenn Close in Attrazione fatale, dove l’odio si afferma come conseguenza diretta dell’amore rifiutato; la lunga teoria di amicizie virili venate di omosessualità che degenerano in implacabile ostilità che spunta con puntuale ricorrenza nei kolossal in costume: dal faraonica Yul Brinner dei Dieci comandamenti, nella versione 1956 di Cecil De Mille, al turpe Messala del Ben Hur di William Wyler sino al più recente Commodo nel Gladiatore di Ridely Scott ( 2000), perverso e a modo suo tormentato, feroce e fragile, interpretato da un grandissimo Joaquin Phoenix; la terrificante Bette Davis di Che fine ha fatto Baby Jane? , di Robert Aldrich ( 1962), in cui l’odio è conseguenza di un senso di colpa peraltro privo di fondamento e costruito dalla vittima ( Joan Crawford), tanto che diventa impossibile dire con certezza quale tra le due sorelle, l’angelica Joan e la diabolica Bette sia il vero demonio.
La lista potrebbe continuare: lunga ma non lunghissima. Però molto più corta sarebbe quella dei film che hanno tentato non solo di mettere in scena grandi personaggi animati dal quel sentimento fortissimo, puramente distruttivo e proprio per questo tanto conturbante, che è l’odio ma di mettere a tema l’odio stesso, di analizzarne la genesi, illustrarne le sfaccettature, misurarsi con la sua complessità. Forse nessuno lo ha fatto meglio e con maggior acume di John Ford, il più epico tra i grandi autori di Hollywood, nel capolavoro The Searchers ( Sentieri selvaggi), del 1956. Ethan, il protagonista impersonato da John Wayne, è a modo suo un grande odiatore e uno dei personaggi più complessi e torbidi nella storia del cinema. Reduce sconfitto della Guerra di Secessione, animato da una ossessionante ostilità per i nativi, che all’epoca venivano sbrigativamente definiti “indiani”, insegue per anni la tribù che ha rapito sua nipote: prima per salvarla, poi, dopo aver saputo che è diventata moglie del capo tribù, per ucciderla. Non lo farà. Quando alla fine riuscirà a ritrovarla gli trema la mano e non gli regge il cuore. Invece di ammazarla la stringe in un abbraccio che è liberatorio per gli spettatori ma non per lui stesso. Non c’è riscatto né catarsi nel voltafaccia emotivo di Ethan, non c’è ritorno in un mondo animato da sentimenti diversi dal gelo che lo possiede e lo danna. Riportata a casa la ragazza, volta le spalle a quel mondi di affetti per tornare alla sua macerante solitudine.
The Searchers si apre con la sorella di Ethan che dal portico di casa vede avvicinarsi, all’inizio senza riconoscerlo, il fratello lontano da anni. Si chiude con una scena uguale e opposta, presa dallo stesso punto di vista, quello della casa: Ethan che, riportata a casa la nipote si allontana. Non c’è casa per Ethan: No Direction Home. Il suo odio psicotico per “gli indiani”, l’ossessione che lo spinge a cercare per anni la nipote scomparsa solo per ucciderla, sono il riflesso di uno spaesamento senza rimedio, di un’impossibilità di trovare un posto nel mondo. La grandezza di John Ford sta nella capacità di rendere tutta la profondità e tutto il tormento di un grande odiatore senza mai cedere alle tentazioni opposte di appiattirlo colpendolo con un semplicistico biasimo morale oppure di renderlo simpatico. Lo spettatore arriva a comprenderlo ma mai a empatizzare con lui, perché odio ed empatia si escludono a vicenda.
Nel suo stile opposto a quello di John Ford, tanto secco e minimalista quanto epico e fastoso era quello del regista con un occhio solo, Clint Eastwood ha dedicato all’odio più spazio di qualsiasi altro regista contemporaneo, e forse più di qualunque altro regista in generale. Il suo esordio dietro la macchina da presa, Play Misty for Me ( Brivido nella notte), del 1971, è in realtà la versione originale ( e meglio riuscita anche se all’epoca se ne accorsero in pochi) di Attrazione fatale, con la stessa degenerazione di un amore rifiutato in follia omicida ma ben maggiore sensibilità nei confronti della donna ferita e diventata assassina. Poi ci saranno i western segnati da una volontà di vendetta tanto dominante da acquistare tratti demoniaci, lo sterminio degli stupratori da parte della loro vittima in Sudden Impact ( Coraggio, fatti ammazzare) del 1983, il quarto episodio della serie dell’ispettore Callahan e l’unico diretto dallo stesso interprete, la gelida furia, appuntata sul soggetto sbagliato, del personaggio interpretato da Sean Penn nel capolavoro Mystic River.
Anche quando odiano, i personaggi di Eastwood non sono mai odiatori. Il suo coraggio sta nel riconoscere che in tutti, in circostanze date, alberga o può albergare l’odio e nel mettere di conseguenza in scena personaggi il cui lato oscuro non cancella quello opposto. Forse nessuna rappresentazione di un puro e freddo odio nel cinema compete con quella di William Munny alla fine di Gli spietati ( 1992), uno dei western più belli mai realizzati e certamente il migliore degli ultimi decenni. Subito dopo però Munny torna a pregare sulla tomba della moglie a cui deve la propria redenzione, a prendersi cura amorevolmente dei figli. I personaggi di Eastwood possono odiare quanto l’Ethan di John Ford, ma proprio perché non sono dominati dall’odio possono ritrovare la strada di casa.
La genesi dell’odio è stata a sua volta indagata raramente. Lo ha fatto Mathieu Kasovitz nel profetico cult vincitore del premio per la miglior regia a Cannes 1995 La haine ( L’odio), un film che mettendo in scena la rabbia, la frustrazione e l’ostilità per il mondo delle banlieues annunciava la tenpesta in arrivo. Lo hanno fatto, con maggior sottigliezza, due grandi autori della commedia all’italiana, Mario Monicelli con Un borghese piccolo piccolo, del 1977, e soprattutto Luigi Comencini con Lo scopone scientifico, del 1972, entrambi interpretati da uno strepitoso Alberto Sordi. Il piccolo borghese che si vede ammazzare il figlio di Monicelli, come la coppia di borgatari condannati a giocare e perdere sempre per il divertimento di una miliardaria americana ( Bette Davis). Sono entrambi persone non solo “per bene” ma anche certamente buone, che le circostanze portano a esplosioni di odio, sanguinoso nel personaggio di Monicelli, che tortura per ore l’assassino del figlio prima di ucciderlo, gelido in quello di Comencini, che con la figlia Cleopatra che avvelena la miliardaria dopo l’ultima sconfitta. Il cuore di tenebra alberga in tutti, e in tutti, in determinate condizioni, può prendere il sopravvento.
Ma la strettissima parentela e insieme l’assoluta inconciliabilità tra amore e odio nessun film ha saputo metterla in scena come il solo vero ciclo epico classico moderno: la saga di Star Wars ( quella vera di George Lucas, non il flaccido seguito della Disney). I sei film del ciclo, in fondo, sono la storia della caduta nell’odio, la zona oscura, di Anakin Skywalker, il suo progressivo soccombere alla propria zona d’ombra, a Darth Vader, sino al riscatto in extremis. Anakin è la luce e l’oscurità, nel mondo di Tolkien riassumerebbe in una sola figura Mordor, la terra del male, e Gondor, quella del bene. Anakin è un campo di battaglia. Come tutti.