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Tribunale civile di Roma
In tribunale per difendere le ragioni dei propri assistiti e non per litigare. Dovrebbe essere questa l’ordinaria attività degli avvocati che si recano, nonostante le restrizioni dovute all’emergenza sanitaria, ogni giorno nelle aule giudiziarie. Ad una avvocata di Roma è capitato, però, di discutere con un cancelliere, eccessivamente zelante, del tribunale civile della capitale.
Niente di più antipatico in una professione caratterizzata da fattori imprevedibili che richiedono sempre massima lucidità per essere affrontati. La discussione tra l’avvocata e il cancelliere è sfociata in un vero e proprio litigio con tanto di denunce da entrambe le parti e sentenza penale emessa due giorni fa. I fatti risalgono al 2015, quando una avvocata del Foro di Roma si è imbattuta in un cancelliere più che intransigente. La professionista aveva urgenza di depositare una costituzione per un risarcimento danni riguardante una lite condominiale. Deposito arenatosi in cancelleria in quanto considerato non ricevibile dal sistema per carenza della specificazione del titolo.
Nel 2015 eravamo in una fase intermedia e di passaggio dal processo con il deposito cartaceo degli atti al processo civile telematico. A fronte delle proteste dell’avvocata, giunta negli uffici di Via Lepanto, il cancelliere oppose il suo niet. Ma il rifiuto del funzionario pignolo non scoraggiò l’avvocata, che dopo essersi recata dal dirigente della cancelleria ottenne disco verde: nessun ostacolo al deposito, il cancelliere può procedere. Ecco che a questo punto la situazione prende una piega inaspettata. Il cancelliere è fermo sulle sue posizioni. Ritiene che il deposito non si possa effettuare e a questo punto fa perdere la pazienza all’avvocata. Volano parole grosse e si arriva alle mani. Il cancelliere dice di essere stato colpito con uno schiaffo, l’avvocata di essersi difesa per evitare i colpi nella colluttazione.
L’atto comunque viene depositato da un altro cancelliere, ma non senza strascichi sul versante penale. Quanto accaduto, infatti, approda in Procura e due giorni fa è stata pronunciata la sentenza della seconda sezione del tribunale penale. Il cancelliere è stato condannato a un anno di carcere per aver indebitamente rifiutato, nella sua qualità di assistente giudiziario, un atto del suo ufficio e per non averlo depositato. Dovrà anche versare duemila euro per i danni provocati all’avvocata, rimborsare le spese legali alla parte civile oltre che pagare le spese processuali.
«La nostra professione – dice al Dubbio Francesco Cilenti, legale dell’avvocata che si è scontrata con il cancelliere – è cambiata moltissimo negli ultimi anni. Noto spesso tensione negli uffici giudiziari. Si percepisce nei confronti degli avvocati una certa diffidenza, che in casi estremi, come quello che ha riguardato la collega che ho difeso, si trasforma in prepotenza e mancato riconoscimento di autorevolezza per chi indossa la toga. Si dimentica che noi avvocati siamo in prima linea nella difesa dei diritti di tutti i cittadini ed un autentico baluardo della democrazia».
Quanto accaduto a Roma riaccende i riflettori sulle difficoltà che quotidianamente gli avvocati affrontano e sulle tensioni che scuotono la professione legale, messa a confronto con altri protagonisti della giustizia. Tensioni acuite nell’ultimo anno a causa del covid con attività giudiziarie fortemente rallentate, difficoltà ad accedere agli uffici e timori di contagio da parte del personale amministrativo. Nei mesi scorsi proprio sul nostro giornale abbiamo raccontato tante storie di disagi a seguito della ripresa delle attività in presenza nei tribunali, principale luogo di lavoro degli avvocati. Non sono mancate posizioni a dir poco rigide da parte di alcune sigle sindacali, preoccupate non per il buon funzionamento della macchina della giustizia, ma dalla presenza degli avvocati nelle aule dei tribunali. Presenza vista addirittura come un potenziale pericolo in grado di diffondere il coronavirus; chi indossa la toga è visto quasi come un untore. La richiesta sempre più pressante di incentivare lo smartworking giudiziario per tutti è un segno dei tempi che stiamo vivendo.
L’allontanarsi dai tribunali potrebbe, come ha evidenziato di recente l’Ordine degli avvocati di Venezia, indebolire il servizio pubblico di altissimo profilo sociale che la giustizia costituisce. Nella città lagunare non è mancata la contrapposizione con gli uffici giudiziari quando si è trattato di riprendere le attività in presenza. Qualcuno ha preferito e preferisce tenere al minimo il motore della giustizia. Scelta che, con il protrarsi dell’emergenza sanitaria, potrebbe essere reiterata con danni incalcolabili e l’ennesima figuraccia anche in Europa. La neoministra, Marta Cartabia, non potrà non tener conto di quanto sta accadendo.