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A Roma, l’antifascismo non era soltanto un’idea: era un sussurro nei cortili, un foglio dattiloscritto passato sotto banco, una porta chiusa con due mandate, il volto teso delle donne che nascondevano i clandestini. Era un codice morale che non aveva bisogno di tessere né di santini. Viveva nei bar di San Lorenzo, nei portoni di Trastevere, nelle soffitte di Testaccio, e soprattutto nei tribunali, dove il diritto arrancava dietro le direttive del regime. Lì, tra fascicoli e decreti, c’era chi ancora credeva nella legge come argine al sopruso. Uno di questi era Carlo Zaccagnini, romano fino al midollo, avvocato per vocazione, partigiano per dovere. Nato nel 1913, cresciuto all’ombra dei codici civili e penali, Carlo era uno di quelli che credevano che le parole potessero ancora tenere a bada le armi. Negli anni del consenso obbligato, frequentava le aule con l’ostinazione di credeva ancora nelle legge: difendeva chi poteva, taceva quando serviva, ma sotto sotto covava quella rabbia lucida che solo gli uomini liberi conoscono bene. Quando nel ’ 43 l’Italia firmò l’armistizio e Roma si trovò occupata dai nazisti, Zaccagnini capì che il tempo dei codici era finito. E iniziava quello della scelta irreverisibile, della clandestinità.
Mentre molti si rifugiavano nella prudenza, lui si buttò nella Resistenza. Ma lo fece a modo suo, da avvocato. Fondò l’Unione Nazionale della Democrazia Italiana, insieme a Placido Martini e pochi altri: un gruppo di ispirazione liberale, costruito nel cuore dell’Antifascismo romano, lontano dalle bandiere e vicino alle coscienze. Non era un movimento armato, non faceva saltare treni, ma aiutava a liberare arrestati, a nascondere perseguitati, a organizzare fughe, a intessere una rete invisibile e tenace. Usavano l’intelligenza come arma, la parola come scudo, la logica come difesa. Zaccagnini era il cervello e il cuore, la mente giuridica che metteva ordine nel caos.
Roma, in quei mesi, era un campo di battaglia senza fronte chiaro. L’attentato di via Rasella, la rappresaglia nazista, le retate, le spie. Qualcuno parlò. Carlo venne arrestato. Lo picchiarono, lo torturarono, tentarono di farlo parlare. Ma lui, che aveva costruito una vita sulle parole, scelse il silenzio. Un silenzio che salvò altri e che lo condannò.
Il 24 marzo 1944, lo presero dal carcere di via Tasso e lo portarono alle Fosse Ardeatine. Aveva trentun anni. Fu uno dei 335 uccisi
nella rappresaglia nazista, in un buco della terra che oggi è sacrario, ma allora era solo morte. Eppure, di Carlo Zaccagnini non restano solo le ossa nel Sacello 49. Resta l’idea che l’avvocato, in quel tempo di barbarie, potesse essere un partigiano della ragione, un resistente che difendeva non solo gli uomini, ma il principio stesso di giustizia. Non imbracciò mai un fucile, ma restò fedele a un giuramento più profondo: quello alla dignità umana.
In mezzo a tante storie romane di resistenza, la sua ha un timbro diverso. Non quello epico delle bande armate, ma quello civile, ostinato, colto. Un antifascismo togato.
Una pietra dorata in via Arenula ricorda il suo sacrificio e una medaglia d’oro il suo coraggio: «Ufficiale di cpl. dell'Esercito ed invalido di guerra, entrava all'armistizio tra i primi nel movimento della resistenza sorto nella Capitale, portandovi il suo ardente entusiasmo ed elevata fede e rivelando nelle numerose azioni a cui partecipava preclari qualità di valoroso combattente, di capo, di animatore instancabile. Venuto a conoscenza che in località vicina erano stati catturati dal nemico quattro giovani patrioti, non esitava ad attraversare una zona fortemente presidiata, penetrando nel luogo di detenzione e riusciva con abile stratagemma, sfidando la reazione degli armatissimi avversari, a liberare i quattro giovani. Ricercato attivamente e poi catturato in seguito a vile delazione, sopportava stoicamente, per ben sessanta giorni, atroci torture ed inumane sevizie, senza mai nulla rivelare che potesse nuocere alla causa della Resistenza. Con l'esempio e con la parola incitava gli altri patrioti con lui catturati a saper resistere e ad aver fede nei destini dell'Italia.
Alle Fosse Ardeatine suggellava, col supremo sacrificio della vita, la sua profonda dedizione alla causa della libertà della Patria».