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«In quest’odio di oggi non c’è nulla di nuovo». Pierluigi Battista, editorialista del Corriere della Sera e saggista, analizza le radici di un odio che definisce «ideologico» anche in un tempo in cui le ideologie sono scomparse, un odio «freddo e razionale» che ha trasformato i cittadini in haters senza punti di riferimento, soli davanti ai loro computer.
Negli ultimi anni, soprattutto grazie ai Social Network, l’odio sembra essere diventato la cifra linguistica della società.
Dissento profondamente: non c’è alcuna novità. Si continua a ripetere che questo è avvenuto negli ultimi anni, ma è falso: l’epoca delle contrapposizioni ideologiche è stato un periodo di odio feroce. Gli ultimi anni sono solo una fase, ma l’odio politico è una caratteristica tipica delle società di massa.
L’odio affonda le radici nell’ideologia, quindi?
È il cemento emotivo che tiene insieme le grandi comunità ideologiche. Si tratta di un odio che è riferito a un soggetto terzo, che non è un avversario ma un vero e proprio nemico da demolire e abbattere, in effige o anche fisicamente, nel caso di forme di potere totalitario. Un fenomeno, questo, che non nasce con la politica ma ancora prima, con la religione. Le ideologie, infatti, altro non sono che la sostituzione della credenza religiosa con la politica.
Anche nelle religioni c’è odio?
Per citare Carl Schmitt, «la politica è la secolarizzazione delle categorie teologiche». Durante le crociate si uccidevano gli infedeli in nome di Dio, nel Novecento si è sostituito al linguaggio religioso quello dell’ideologia politica. Negli anni Settanta si uccideva nel nome dell’odio politico e chi, come me, ha avuto la sfortuna anagrafica di aver vissuto quel periodo lo ricorda in modo indelebile. Allora si sparava, alimentati da un odio freddo: i terroristi non erano malati di una febbre d’odio improvviso ma si appostavano per giornome ni e giorni, si organizzavano, studiavano l’azione sin nei minimi dettagli. È difficile spiegare quale spinta mentale servisse per fare una cosa del genere.
Come definirebbe l’ideologia?
L’ideologia è una forma di giustificazione razionale dell’odio, che non è mai personale ma colpisce intere categorie di soggetti. Se in tempo di guerra il nemico non si odia, ma gli si spara perchè vale la legge del mors tua vita mea, in tempo di pace l’ideologia è il carburante ideale necessario ad accendere l’odio per colpire il nemico. Il meccanismo è: tu che ti opponi a me sei il nemico da distruggere, non un avversario che la pensa diversamente da me con cui vivo un rapporto di conflitto politico anche molto duro, ma che contiene uno scambio positivo. Nell’ideologia non esiste il riconoscimento di una ragione altrui.
Oggi però non si spara più in dell’ideologia e le parole non sono proiettili. Come fa a dire che non c’è alcuna novità rispetto al passato?
E’ finita l’era ideologica ma gli stampi mentali sono rimasti: nulla si azzera, prende solo nuove forme. Il punto è un altro: oggi è in atto una forma di imbarbarimento della società, che affonda in ciò che dicevo prima: le radici dell’odio si trovano nell’annientamento morale dell’individuo. Succede così sui Social, dove si sostituisce l’essere umano con un nemico contro cui sparare. E’ la traduzione in tempo di pace di un comportamento bellico: del resto anche le parole possono annientare, seppur non fisicamente.
E come, allora?
Penso, per esempio, alla morte giudiziaria. Distruggere un nemico politico attraverso gli strumenti della magistratura cos’altro è, se non una forma di annientamento? Esattamente questo è successo in Italia, e il passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica è avvenuto attraverso una disintegrazione politico- simbolica del nemico politico nell’aula giudiziaria. E il popolo dov’era? Tirava le monetine e i cappi. Perchè le monetine tirate a Craxi erano la manifestazione dell’odio verso una persona che rappresenta qualcosa, in quel caso il nemico di classe.
E dunque Craxi è stato annientato, come diceva lei prima, dalle parole.
Craxi è stato il sacrificio umano su cui è nata la Seconda repubblica. A produrla è stata lo stesso odio che descrivevo prima: non un’esplosione barbarica ma un odio freddo e razionale, meticoloso nel raggiungere il suo scopo e implacabile contro un nemico permanente che deve essere cancellato.
Oggi, però, il tutto sembra ancora più amplificato, e l’odio online e sui Social Network è un fenomeno che esaspera ogni tipo di contrapposizione.
Anche in questo non vedo novità. Nel 1992 non c’era Facebook, ma al suo posto c’era il cosiddetto popolo dei fax: invece che organizzare campagne social, la gente inondava i giornali di fax indignati, in cui dava del cialtrone o del buffone a quel giornalista o a quel politico. Come vede, cambiano le forme espressive, ma non la sostanza.
Parliamo allora del giornalismo. Anche nel linguaggio dei giornali l’odio è diventato cifra stilistica.
Nel giornalismo militante l’odio è la caricaturizzazione, la riduzione del nemico a male assoluto, la legittimazione al silenziamento del nemico, che non deve parlare e deve essere messo fuori legge, in un recinto di appestati. In questo modo di ragionare i giornali rincorrono i Social e viceversa, in una spirale infinita verso il basso. Certo, le novità tecnologiche hanno amplificato tutto, dando al fenomeno una dimensione più estesa e drammatica.
E che cosa può frenare quest’odio?
Prima parlavo dell’annientamento morale dell’individuo. Ecco, un tempo erano i partiti e i sindacati a svolgere la funzione di ammortizzatori morali: strutture in cui gli individui potevano sentirsi meno soli e vulnerabili. I corpi intermedi creavano comunità, sostenevano i singoli e in un certo senso ne capivano e governavano le pulsioni, depotenziando l’odio. Tutto ciò oggi è sparito e, senza questa intermediazione, le persone si trovano sole davanti al computer: così diventano haters.
Il giornalismo può avere un ruolo nel governare il fenomeno?
Il giornalismo di oggi non ha alcun seguito e non influenza più l’opinione pubblica. Realisticamente, i giornali hanno perso la funzione di orientare la società e lo dimostra il fatto che le nuove generazioni non li leggono più.
Eppure viviamo in un mondo che è sempre più inondato d’informazione.
Certo, ma l’informazione non è più sinonimo di giornalismo, quell’epoca è finita da un pezzo. I giovani di oggi si informano con altri mezzi e uno di questi sono i Social. Mia figlia qualche giorno fa mi ha parlato di un libro di Grossman e io, stupito, le ho chiesto dove ne avesse sentito parlare. Lei mi ha risposto che ha letto un post su Facebook che ne parlava. Ecco, le nuove generazioni acquistano libri, vedono film, assistono a concerti e formano i propri gusti attraverso strumenti che non sono più le recensioni sul Corriere e Repubblica. Nello stesso modo, ormai, si veicola anche la politica, ammesso che interessi ancora a qualcuno.
E i giornali come possono reagire a questa concorrenza?
Guardi, la crisi mortale del giornalismo sta sullo stesso piano concettuale della crisi dei partiti e dei sindacati: sono stati gli strumenti che hanno dato orientamento al mondo in cui è cresciuta la mia generazione, ma non quella di oggi. Ora i giornali annaspano, inseguono, cercano disperatamente di stare nell’onda ma vengono sempre più espulsi da un presente che va in un’altra direzione. Il giornalismo ha perso una partita storica e non solo in Italia, ma a livello globale.
La politica, invece, sta trovando nuove forme di espressione?
Il crollo di interesse per il giornalismo è anche il crollo di interesse per la politica. Pensi ai talk show politici: solo qualche anno fa occupavano i palinsesti e facevano il 12% di share, oggi nella migliore delle ipotesi arrivano al 5%. Solo ai giornalisti interessano giornali e talk show, i giovani la sera guardano i serial americani e a mala pena sanno cosa sia la Rai.
Ma senza politica, partiti e giornalismo, che cosa si può fare per arginare l’odio che lei ha descritto prima?
La mia generazione ha creduto alla grande illusione che, caduto il Muro di Berlino, si potesse voltare pagina. In realtà questo non è successo e io oggi non vedo elementi di stabilizzazione, né nelle teste dei singoli né nei governi. Quel che si può fare è smetterla con questa retorica nuovista, come se quelli di oggi fossero fenomeni mai esistiti prima: hanno solo altre forme. Non esistono ricette miracolose per uscire da questo vortice, ma solo un’etica della responsabilità.
Tutto ricade sulle spalle dei singoli?
Credo che ognuno di noi debba cercare di agire al meglio delle sue capacità, io stesso credo profondamente in ciò che ho detto e cerco di fare il mio lavoro nel modo migliore. Avrà un’influenza? Questo è impossibile dirlo, ma bisogna agire come se l’avesse. Mi rendo conto che può suonare come una soluzione minimalista, ma non esistono formule magiche. Del resto, tutto ciò che conosciamo oggi era imprevisto solo 15 anni fa: chi avrebbe mai immaginato la portata di fenomeni come Twitter e Facebook e la crisi completa della politica e dei corpi intermedi?
Sembra quasi che le manchino, questi partiti.
Per me i partiti sono sempre stati degli elefanti burocratici, centri orrendi di corruzione che era meglio morissero. Ora che sono finiti, invece, mi rendo conto che svolgevano una funzione sociale importante, perchè sono stati anche centri di educazione democratica, che davano un senso alle città e ai quartieri. Dove prima c’erano le sedi del Pci e della Dc oggi non c’è più nulla e, con la loro scomparsa, la gente è rimasta sola, senza più luoghi di confronto e soggetti con cui confrontarsi. Ed è nella solitudine che l’odio assume dimensioni apocalittiche.