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Dopo più di dieci anni e dopo una tortuosa traversata fatta di prigionia e abusi, sono arrivati domenica scorsa all’aeroporto di Fiumicino i cinque cittadini eritrei a cui il Tribunale di Roma ha riconosciuto il diritto a fare ingresso sul territorio per poter accedere alla domanda di protezione internazionale. Questo è accaduto, però, dopo che l’Italia li aveva soccorsi con una nave della Marina militare nel mar Mediterraneo e illegalmente respinti in Libia nel 2009.
Assistiti dagli avvocati Cristina Laura Cecchini e Salvatore Fachile dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione ( Asgi) e sostenuti dalla documentazione fornita da Amnesty International Italia, hanno presentato ricorso al Tribunale civile di Roma che, il 28 novembre 2019, con la sentenza 22.917, ha dichiarato illegittimo il respingimento, ordinato il rilascio di un visto d’ingresso per permettere di accedere alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale e ha condannato le autorità italiane al risarcimento del danno.
La sentenza ha affermato che al fine di rendere effettivo il diritto di asilo è necessario “espandere il campo di applicazione della protezione internazionale volta a tutelare la posizione di chi, in conseguenza di un fatto illecito commesso dall’autorità italiana si trovi nell’impossibilità di presentare la domanda di protezione internazionale in quanto non presente nel territorio dello Stato, avendo le autorità dello stesso Stato inibito l’ingresso, all’esito di un respingimento collettivo, in violazione dei principi costituzionali e della Carta dei diritti dell’Unione europea”.
TUTTO INIZIO IL 27 GIUGNO 2009
Ripercorriamo tutta la vicenda. Il 27 giugno 2009, 89 persone ( di cui 75 eritrei, 9 donne e 3 bambini) dopo essere fuggiti dal proprio Paese di origine, sono partite dalle coste libiche a bordo di un’imbarcazione con l’obiettivo di arrivare in Italia e vedere finalmente riconosciuto il proprio diritto alla protezione internazionale. I richiedenti asilo narrano che erano circa le quattro del mattino quando hanno salpato con un gommone scortati solo per qualche miglio lontano dalla costa libica dai trafficanti che avevano organizzato la loro partenza dietro il pagamento di un corrispettivo. Sull’imbarcazione sono state caricate dai trafficanti solo poche taniche di acqua e di benzina in uno spazio che era estremamente limitato. A causa di numerose avarie del motore, il viaggio si è prolungato. Dopo 4 giorni in mare, il 30 giugno 2009, ormai a poche miglia da Lampedusa il motore si è definitivamente rotto. Alcune persone, per mezzo dei cellulari a loro disposizione, hanno provato a contattare amici o parenti già in Europa sperando che qualcuno potesse attivare un intervento. Stavano per morire tutti. Solo nel tardo pomeriggio, quando ormai quasi ogni speranza era scomparsa, giunge l’imbarcazione della Marina Militare italiana e li hanno soccorsi. Tutti estremamente felici sicuri che sarebbero finalmente stati condotti sul territorio italiano dove avrebbero potuto finalmente chiedere protezione.
IL DRAMMATICO RITORNO NELL’INFERNO LIBICO
Purtroppo non è stato così. Non si sono diretti verso l’Italia, ma li hanno riportati in Libia. Alcuni hanno protestato, ma secondo le testimonianze la marina italiana avrebbe reagito con violenza. Fatto sta che sono stati tutti respinti dall’autorità italiana senza alcuna formalità ( nessun provvedimento è mai stato loro consegnato) e in maniera collettiva senza avere avuto accesso alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale. Come detto, a bordo della motovedetta italiana sono stati invece ricondotti in Libia dove, giunti sul territorio, dopo essere stati brutalmente e indiscriminatamente picchiati venivano detenuti per lunghi mesi nelle prigioni di Zuwarah, Misurata e Towisha.
LE TORTURE, MORTI E RISCATTO FINALE
Dopo molti mesi di prigionia nel corso dei quali i richiedenti asilo raccontano di essere stati detenuti dalle autorità libiche in condizioni inumane e degradanti e sottoposti altresì a numerose violenze e torture, lentamente, uno ad uno venivano rilasciati. Alcuni di loro nonostante i respingimenti che le autorità italiane continuavano a porre in essere, hanno ritentato la traversata del Canale di Sicilia in alcuni casi perdendo la vita. Alcuni sono morti tra il 2010 e il 2011 a seguito di naufragio. Altri sono riusciti a raggiungere le coste italiane nuovamente negli anni successivi e dopo essere giunti in vari Paesi Europei quali la Germania e la Svizzera hanno inoltrato la domanda di protezione internazionale ottenendo successivamente il riconoscimento. Sono 16 gli Eritrei che hanno deciso di non correre nuovamente i rischi di un viaggio in mare e di tentare di raggiungere l’Europa via terra. Per questa ragione dopo aver attraversato l’Egitto e il deserto del Sinai sono giunti in Israele dove, però, il loro viaggio è terminato.
Amnesty International attraverso le sue sedi dislocate in vari Paesi ( Italia, Svizzera, Olanda, Regno Unito, Israele) è riuscita a rintracciare alcuni dei respinti i quali si sono riconosciuti nei video che hanno documentato quei drammatici momenti. Amnesty International, grazie ad un team composto anche da psicologi ed antropologi e a seguito di numerosi colloqui e interviste, ha provato ad intercettare ed interpretare le esigenze e le richieste di questi migranti. Nasce quindi da una volontà di aiuto, l’idea di una causa dinanzi al Tribunale Civile di Roma per coloro che sono stati vittime di questa prassi illegittima perpetrata dalle forze militari italiane per oltre due anni.
L’azione, in favore di 14 dei 16 eritrei, è stata patrocinata dagli avvocati Cristina Laura Cecchini e Salvatore Fachile di Asgi, mentre Amnesty International ha fornito sostegno, attraverso documenti e ricerche necessari per istruire la causa. Nella causa intentata il 25 giugno 2014, i ricorrenti hanno chiesto l’affermazione del loro diritto a fare ingresso in Italia per accedere alla protezione internazionale e il risarcimento dei danni subiti a seguito del respingimento illegale.
LA SENTENZA DEL 28 NOVEMBRE 2019
Il 28 novembre 2019, con la sentenza 22917, la prima sezione del Tribunale civile di Roma ha dato ragione ai ricorrenti, ordinando il rilascio di un visto di ingresso per poter accedere alla procedura di asilo e condannando il governo al risarcimento dei danni materiali.
«Siamo felici di essere qui. Abbiamo ripreso ad avere fiducia nella giustizia ora speriamo di avere la protezione di cui abbiamo bisogno», ha dichiarato uno dei cinque cittadini eritrei atterrati domenica scorsa a Fiumicino. Dopo il periodo di quarantena previsto dalle norme vigenti, i cinque cittadini eritrei potranno finalmente avviare la procedura per chiedere all’Italia il riconoscimento della protezione internazionale ed ottenere, finalmente, tutti i diritti che ne conseguono. Nei prossimi mesi dovranno giungere in Italia anche altre tre dei respinti, oggi sostenuti dall’organizzazione non governativa Assaf, che sono ancora bloccati in Israele in ragione del fatto che hanno costruito una famiglia. È stata infatti avanzata la richiesta per permettere l’ingresso anche di moglie e figli a seguito viste le condizioni in cui si trovano sul territorio israeliano e i rischi connessi. Si è in attesa delle determinazioni dell’autorità consolare.
La sentenza ha aperto indubbiamente uno scenario estremamente interessante creando problemi con la logica dei respingimenti e soprattutto con la gestione della rotta mediterranea attuata attraverso la collaborazione italiana con le autorità libiche.