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Matteo Messina Denaro, latitante fin dal 1993, è attualmente imputato di essere uno dei mandanti degli attentati di Capaci e di via D’Amelio. Il 19 giugno scorso il pm Gabriele Paci, in una requisitoria di oltre due ore, ha evidenziato tutti gli elementi che inchioderebbero il superlatitante.
Precedentemente, il magistrato che nell’ufficio inquirente di Caltanissetta riveste funzioni di procuratore aggiunto si era dilungato a lungo sul Trapanese, il territorio in cui tutto si svolge. Ha insistito molto su quel punto, perché è la chiave di volta del collegamento tra i trapanesi e i corleonesi di Totò Riina. Da sottolineare che per “trapanesi” si intendono i mandamenti mafiosi di Trapani, Alcamo, Mazara del Vallo e Castelvetrano. La geopolitica mafiosa dell’epoca è importante, per questo bisogna spiegarla.
Totò Riina era il capo indiscusso, condivideva parte della sua fortissima influenza con Bernando Provenzano. Quest’ultimo, a sua volta, aveva un forte potere in alcune zone della Sicilia. Riina, che aveva ovviamente piazzato le proprie pedine dappertutto, aveva la roccaforte non solo nel Palermitano, ma, appunto, anche nell’area di Trapani.
I principali collaboratori escussi durante il processo hanno delineato chiaramente che le maggiori azioni mafiose su ordine di Riina sono avvenute proprio in quel territorio. Ed è proprio quello trapanese che era, ed è, il feudo di Matteo Messina Denaro.
Custodi dei beni dei corleonesi
In realtà, il pm di Caltanissetta Gabruele Paci ha spiegato che il rapporto tra la mafia corleonese e quella trapanese era così fiduciario che i Messina Denaro (Francesco Messina Denaro e il figlio Matteo, il superlatitante), fin dagli anni 80, erano i custodi di buona parte dei beni di Riina e di Provenzano. Ecco perché c’era un’assidua frequentazione da parte dei Corleonesi del territorio del trapanese, eletto da Riina, e dagli altri protagonisti della stagione stragista, come luogo sicuro anche dopo le stragi del ’92.
Ma a corroborare tutto ciò è il fatto che già alle prime Commissioni regionali, per esempio a quella dell’83, nelle riunioni cioè di quelli che erano veri e propri organi di vertice di Cosa nostra, competenti a decidere in tema di delitti eccellenti, era presente Francesco Messina Denaro, il padre dell’attuale latitante, con il ruolo di reggente della provincia di Trapani. Dagli inizi del 1991 in poi sarà il figlio Matteo a sostituirlo. Il padre sarà ritrovato cadavere il 30 novembre del 1998 alla periferia di Castelvetrano.
Ma perché, secondo il pm Paci, l’allora capo dei capi Totò Riina – conosciuto per essere abituato a decidere lui e basta – avrebbe dovuto comunque avere l’assenso di Matteo Messina Denaro per deliberare le stragi di Capaci e di via D’Amelio dove persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino?
Come detto, il feudo di Denaro era geopoliticamente importante per la mafia corleonese. Importante, però, soprattutto per gli affari. E si ritorna sempre lì, al discorso degli appalti. Non a caso, nel ’91, Falcone partecipò a un convengo dedicato proprio a mafia e appalti, sottolineando più volte che quello era, in assoluto, l’interesse più importante della mafia.
Quando Brusca parlò degli appalti
Ma non solo. Durante il processo Rostagno, lo stesso Giovanni Brusca disse: «Gli appalti erano il secondo mio interesse, dopo l’integrità e la sacralità di Cosa Nostra». Salvo poi, in maniera singolare, ritrattare con il tempo e dire che per loro quell’interesse non era poi così preponderante.
«C’era un rapporto bilaterale – ha spiegato durante la requisitoria il pm Paci –, cioè i trapanesi fanno fortuna grazie a Riina e lui stesso deve la sua fortuna ai trapanesi». Ovvero, ha proseguito il pm, «Riina lo sa benissimo che i mazaresi erano tra i privilegiati nella spartizione degli appalti. C ’era il famoso Mastro Ciccio, mafioso potentissimo della famiglia di Agate Mariano che si occupava in particolare della spartizione degli appalti. Mazara del Vallo – ha sottolineato Paci –, su questo, non è arrivata mai seconda e quindi faceva anche comodo ai mazaresi essere particolarmente corrivi alla politica di Rina».
Il procuratore aggiunto di Caltanissetta poi è ritornato nuovamente sulla questione evocando le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Angelo Siino (conosciuto per essere il “ministro dei lavori pubblici” di Riina), sottolineando che «i beneficiari di questi grandi appalti, ovvero la politica del tavolino dove i grandi affari vengono gestiti dalle imprese del Nord che scendono, sono stati anche i mazaresi e gli uomini della provincia di Trapani».
Ecco spiegato perché, secondo la requisitoria del pm di Caltanissetta, senza il consenso di Messina Denaro, il capo dei capi Riina non avrebbe mai potuto ordinare le stragi del ’ 92 e l’attacco allo Stato.
Le indagini di Borsellino
Ancora una volta ritorna il tema di mafia e appalti. In questo caso non come “genesi” delle stragi, ma come elemento importante che lega Matteo Messina Denaro e Totò Riina ad esse. Un dato è certo. Paolo Borsellino, quando era procuratore a Marsala, stava indagando proprio sugli appalti e non a caso volle avere copia del famoso dossier mafia-appalti, visionato e depositato da Giovanni Falcone prima che lasciasse la Procura di Palermo per andare a lavorare al ministero della Giustizia.
Forse si spiega anche perché il colonnello della Dia di Caltanissetta Marco Zappalà, attraverso l’aiuto dell’ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, stava cercando elementi analoghi. Nelle informative dei Ros che indagavano su loro due per conto della Procura di Palermo, compaiono diverse parti giustamente omissate.
Non solo, tra queste spunta anche un riferimento ad Angelo Siino, colui che, ricordiamo, è stato coinvolto nel famoso dossier mafia-appalti, considerato di primaria importanza da Giovanni Falcone, così come da Paolo Borsellino fino al giorno in cui morì stritolato dal tritolo.
A tal proposito ricordiamo che è in corso il processo contro Vaccarino, accusato dai pm di Palermo di aver favorito la mafia. Come? Con l’aver passato delle intercettazioni a Vincenzo Santangelo, titolare di un'agenzia funebre già condannato per mafia. Ricordiamo che gliele avrebbe date, via mail, il colonello Zappalà. Cosa contenevano? Un dialogo tra due personaggi convinti (erroneamente) che il Santangelo avesse omaggiato delle spese del funerale la famiglia del pentito Lorenzo Cimarosa.
Nel corso della requisitoria dello scorso 26 maggio, il pm Pierangelo Padova ha affermato che Vaccarino, parlando con Santangelo, «non sapendo di essere intercettato, disse di Lorenzo Cimarosa “questo fango che si è pentito e si lanzò tutto”». Eppure Baldassare Lauria, legale dell’ex sindaco, nella stessa udienza del 26 maggio ha commentato così l’interpretazione del pm: «Se fosse vero, ma non lo è, sarebbe un ragionamento assolutamente suggestivo. Dico non lo è perché se voi leggete lo stralcio della conversazione che peraltro il pm vi indica in dialetto, vi rendete conto che Vaccarino ha detto l’esatto contrario». Il 2 luglio ci sarà la sentenza.
Vaccarino, ricordiamo, nel passato fu accusato di far parte della mafia dal pentito Vincenzo Calcara. Su questi fatti venne assolto, rimanendogli però la condanna per traffico di droga. Su questo c’è l’istanza di revisione perché si basa sempre sulle parole di Calcara. Quest’ultimo viene punzecchiato anche dal pm Paci durante la requisitoria del processo a Matteo Messina Denaro dicendo che egli non ha mai fatto il nome del latitante al tempo in cui uccideva.
Nel frattempo sono passati 27 anni e non si riesce a catturarlo nonostante in più fasi le operazioni giudiziarie gli abbiano fatto terra bruciata intorno, così come è avvenuto la scorsa settimana con l’arresto di due suoi favoreggiatori.