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«Mi ero illuso. Avevo visto nella tragedia dell’epidemia un futuro spiraglio di luce almeno per i diritti dei detenuti. Ero convinto che l’impressione di condannati costretti a vivere in promiscuità persino in pieno allarme coronavirus avrebbe dimostrato quanto la detenzione inframuraria sia inadeguata al recupero del condannato. Invece dal decreto di Bonafede in arrivo in Gazzetta ufficiale riconosco addirittura un peggioramento del clima. E assisto alla scena desolante di una Corte costituzionale entrata nelle carceri dalla porta mentre era proprio la Costituzione a uscire, per la finestra, dal sistema penitenziario».
Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Consulta, considera le norme volute da Bonafede — che obbligheranno il giudice di sorveglianza ad attendere per 15 giorni il parere del procuratore nazionale antimafia prima di concedere i domiciliari ai detenuti in regime di 41 bis gravemente malati — meno devastanti di quanto temuto: «Si era vociferato, nei giorni scorsi, di un parere della Dna qualificato come vincolante. Non è così. Eppure le nuove norme sui domiciliari segnalano il precipitare del clima. Vale a dire una parabola opposta al mio auspicio di vedere più umanità nell’esecuzione penale proprio in virtù del coronavirus. Con l’ingresso del procuratore nazionale Antimafia sulla scena, le decisioni sui domiciliari rischiano di lasciare in un angolo il diritto alla salute e imporre ancora una volta una visione carcerocentrica» .
La tragedia del covid avrebbe dovuto almeno scongiurare altri casi come quello di Provenzano. E invece entra in vigore un decreto che va in direzione opposta. Alla vigilia delle sentenze, della Cedu prima e della nostra Corte costituzionale poi, sulla compatibilità fra benefici e reati ostativi, avevamo assistito allo stesso fuoco di fila. Siamo sempre in quella scia, su un filo sottilissimo che vede compromesso ora non solo il fine rieducativo della pena ma anche l’articolo 32 della Costituzione: la salute come diritto dell’individuo da tutelare sopra ogni cosa. A sconcertare è che lo sbilanciamento non è opera solo dell’opinione pubblica mediatico- politica: a lasciare perplessi sono le valutazioni che provengono da alcuni magistrati. Da chi è preparato e ben conosce la Costituzione.
Il decreto di Bonafede sui domiciliari per chi è al 41 bis cancella i diritti dell’individuo? Nella sua forma è un provvedimento meno pesante del previsto. Va apprezzato il ridimensionamento delle ipotesi iniziali, secondo cui il parere del procuratore nazionale Antimafia avrebbe dovuto diventare vincolante per i giudici di sorveglianza. Ma intanto, proprio a questi ultimi sento di dover esprimere la mia solidarietà: comprendo la loro sensazione di essere commissariati, e implicitamente accusati di lassismo.
Saranno meno liberi di decidere, vista la delegittimazione? Ripeto: il problema è il clima generale. Bonafede ha opportunamente ribadito che il legislatore non può intromettersi nell’autonoma valutazione del giudice. Ma l’aria attorno ai magistrati di sorveglianza si è fatta ancora più pesante. Confido che avranno la forza di restare autonomi, nonostante tutto. Certo non è molto convincente vedere attribuita, a un magistrato che impersona l’accusa, la competenza sui domiciliari per gravi motivi di salute.
Come si è arrivati a una simile distorsione sul peso della Dna? Temo che abbia contribuito una consapevolezza non sufficientemente chiara delle diverse forme di detenzione domiciliare. Un conto è scontare la pena a casa come misura alternativa, dunque funzionale al trattamento del condannato, al recupero della sua personalità e identità. Di tutt’altra natura è l’istituto dei domiciliari come soluzione surrogatoria del differimento pena. Il punto è che tale seconda concezione dei domiciliari è stata contaminata da quella particolare accezione richiamata anche dal decreto 18, il “Cura Italia”: vale dire la misura alternativa della detenzione domiciliare concessa non solo in chiave trattamentale ma anche secondo una logica deflattiva. Una parte dell’opinione pubblica ha creduto che anche i detenuti al 41 bis avessero ottenuto i domiciliari per via di uno svuotacarceri? Si è certamente generata confusione. Eppure, senza entrare nel merito degli specifici casi che hanno suscitato scalpore, i giudici di sorveglianza hanno concesso la detenzione domiciliare ad alcuni detenuti al 41 bis come forma sostitutiva surrogatoria del differimento pena per gravi motivi di salute. Un istituto che bilancia da una parte la necessità di interrompere la detenzione inframuraria di fronte a condizioni incompatibili col carcere, e dall’altra le esigenze di sicurezza sociale. Negli ultimi casi, sull’incompatibilità con la permanenza in carcere hanno pesato anche i rischi di contrarre il coronavirus considerata l’età anagrafica. Ora è stata introdotta una modifica in apparenza non sconvolgente, ma che comporta di fatto un ulteriore pesante sacrificio per il diritto alla salute.
Perché si tratta di un sacrificio pesante? Finora la valutazione del giudice di sorveglianza su casi simili era chiaramente regolata. La concessione dei domiciliari come rimedio sostitutivo del differimento pena è obbligatoria per i detenuti al 41 bis malati terminali: venne introdotta in relazione ai casi di Aids. Se il recluso affetto da gravissime patologie non risponde più alle cure, va scarcerato. La concessione dei domiciliari diventa facoltativa se non c’è una fase terminale ma il detenuto al 41 bis è comunque in condizioni molto gravi: in questo caso il giudice di sorveglianza non può adottare il provvedimento, oppure lo revoca, di fronte a un concreto pericolo di reiterazione del reato. Cosa cambia con il decreto Bonafede? Che il magistrato titolare della decisione, prima di concedere i doimiciliari a un recluso al 41 bis gravemente malato, è obbligato a chiedere il parere del procuratore nazionale Antimafia. Ed è evidente come tale circostanza faccia precipitare il piatto della bilancia tutto dalla parte delle esigenze di sicurezza sociale. È come se ci fosse una chiara scelta di considerare il diritto alla salute nettamente subordinato a tali esigenze. Anche in virtù di un ulteriore sottile scarto interpretativo.
A cosa si riferisce? Al fatto che secondo alcuni magistrati la concessione dei domiciliari per gravi motivi di salute va considerata solo in relazione alle cure che il detenuto al 41 bis potrebbe ricevere al di fuori della struttura penitenziaria: se in astratto non sarebbero più efficaci, secondo tale ottica non c’è motivo di portare il recluso fuori dalla galera. Secondo un’altra direzione giurisprudenziale, invece, innanzitutto secondo la Corte europea dei Diritti dell’uomo, chi è al 41 bis in buono stato di salute sconta una pena meno afflittiva di chi, in quel regime detentivo, si trova da malato grave. La consapevolezza di essere in carcere aggrava la pena, dunque la sofferenza, di una persona che già sta male. Ecco, con l’ultima soluzione normativa trovata, con l’enorme peso attribuito di fatto al parere della Dna, avremo forse procuratori Antimafia che entreranno nel merito delle cartelle cliniche e suggeriranno al giudice di non concedere i domiciliari, perché in fondo quella patologia non sarebbe curata meglio fuori che dietro le sbarre. Non solo, perché la norma è abbastanza ambigua da non poter escludere che qualcuno possa ritenere obbligatorio il parere della Dna persino per i detenuti in stato terminale, per i quali i domiciliari sarebbero obbligatori. Ma è così che diventa tristemente rovesciato l’esempio del viaggio nelle carceri compiuto dalla Corte costituzionale. Il giudice delle leggi era entrato negli istituti di pena dalla porta, ma così è proprio la Costituzione che esce dalla finestra del nostro sistema penitenziario.