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L’attacco hacker alla Regione Lazio sarebbe partito da un computer di un dipendente in smart working. Lo afferma l’assessore alla Sanità, Alessio D’Amato
Le buone leggi nascono da un circolo virtuoso. Difficile che basti l’intuizione del singolo. Tra le leggi migliori arrivate dalla scorsa legislatura, le professioni e in particolare gli avvocati annoverano senz’altro quella sull’equo compenso. Non c’è da meravigliarsi. Era da almeno un decennio la dignità della retribuzione, per le libere professioni era passata di moda. La legge approvata a fine 2017 - grazie all’iniziativa dell’organismo istituzionale dell’avvocatura, il Cnf - ha così assunto un enorme rilievo innanzitutto come segnale di una clamorosa, persino inattesa inversione di tendenza.
Ora il nuovo governo caratterizza le scelte più recenti, a cominciare dal Def, con una rinnovata attenzione al ceto medio. Se davvero entrerà nella legge di Bilancio per il 2020, la flat tax avrà un occhio privilegiato per le famiglie dal reddito medio, sulle quali la crisi ha prodotto le lacerazioni più dolorose. Sarebbe naturale aspettarsi un altro passo. Proprio relativo al compenso da riconoscere ai professionisti, che del ceto medio sono l’inconfondibile ossatura. Sarebbe lecito cioè aspettarsi che venga perfezionato l’ultima necessario affinamento della legge approvata nella scorsa legislatura, che ha previsto l’inderogabilità delle soglie minime indicate per gli avvocati, ad esempio nei parametri forensi, ma lo ha fatto in modo esplicito solo per i cosiddetti “committenti forti”; vale a dire per quei privati che si comportano verso i loro avvocati fiduciari con l’indifferente avidità del monopolista. Nel caso della pubblica amministrazione, altro fronte dolorosissimo per i professionisti, è stata sancita la necessitò di rispettare “il principio” dell’equo compenso. Il che non basta, come dimostra il bando a zero euro pubblicato il mese scorso dal ministero dell’Economia, solo per fare un esempio.
Il sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone ha aperto un tavolo con le rappresentanze di tutti gli Ordini per definire un disegno di legge equilibrato in materia. Ma quando si tratta di misure non proprio a invarianza finanziaria, anche il ministero di via Arenula, tra i più produttivi finora sul piano legislativo, rischia di incontrare difficoltà. Così a soccorrere il legislatore nazionale intervengono i Consigli regionali. Che sull’equo compenso, negli ultimi mesi, hanno compiuto passi importanti. Il più recente è nella legge regionale approvata dal “parlamentino” laziale lo scorso 3 aprile. Un piccolo gioiello di equilibrio, completezza ed efficacia. Vale la pena di citare quanto dichiarato, il giorno del voto, da una dei due consiglieri firmatari della proposta iniziale, Eleonora Mattia, del Pd: «Nei limiti delle competenze legislative regionali», ha premesso, «con questa legge introduciamo strumenti per garantire che la Regione, le società controllate e gli enti strumentali riconoscano compensi equi ai professionisti dei quali si avvalgano». Allo stesso tempo, ha ricordato Mattia, «assicuriamo al professionista di ricevere il pagamento delle spettanze dal privato, pena la sospensione del procedimento amministrativo in cui figura la prestazione».
Ancora: «Vengono negate le autorizzazioni a chi non paga il progettista e fornito uno strumento utile a contrastare l’evasione fiscale». Particolarmente interessante il richiamo ai «parametri stabiliti dai decreti ministeriali adottati per le specifiche professionalità». L’amministrazione regionale, le sue “controllate”, i privati che chiedono autorizzazioni all’ente, non possono rifugiarsi in un riferimento manipolativo e furbesco al “principio” dell’equo compenso. Dovranno rispettare le soglie minime dei parametri. E nel caso degli avvocati, quelle soglie minime sono divenute inderogabili, grazie al’aggiornamento del relativo decreto emanato un anno fa da via Arenula.
La scelta non è solo la «risposta» del Lazio a tutela «dei circa 175mila professionisti» che in quella regione lavorano, come ricordato dalla consigliera Mattia. È anche un esempio, e quindi uno stimolo, per il Parlamento nazionale. Se la si vuol davvero approvare, una legge sull’equo compenso per i professionisti va scritta esattamente come hanno fatto alla Pisana. Non ci sono scorciatoie. Se si vuol davvero offrire una risposta concreta al ceto medio, va seguita quella traccia, oltre alla corsia preferenziale nella riduzione delle tasse. Che, se non si interviene innanzitutto sulle retribuzioni, rischia di essere un amaro paradosso.
Gli Ordini hanno collaborato alla stesura del provvedimento regionale. Ma alla fine è stata inserita un’estensione delle tutele anche per le «professioni non organizzate, per le quali non vi sono decreti ministeriali che fissino il compenso equo». È un’idea anche un po’ eccentrica rispetto allo spirito della legge nazionale. Ma serve a dire un’altra cosa: che la dignità del lavoro, e della retribuzione, riguarda tutti, non ammette distinzioni. E che se la politica ha davvero a cuore la giustizia sociale non può fingere di ignorarlo.