Nel day after della richiesta di autorizzazione a procedere contro il sottosegretario Alfredo Mantovano e i ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi per la vicenda Almasri, Giorgia Meloni è tornata nel solco istituzionale.

Niente dichiarazioni di fuoco, nessuna rincorsa al muro contro muro. Dopo il duro attacco via social alla magistratura, la premier ha cambiato registro. E ha messo in campo una strategia che punta a ridare ossigeno all’immagine di un governo che lavora, compatto e concentrato sulle priorità del Paese, contro chi – il sottotesto è chiaro – cerca di rallentarne l’azione con iniziative giudiziarie sempre più politicamente orientate.

Così Palazzo Chigi si è trasformato in palcoscenico di una regia studiata nei dettagli: una mattinata all’insegna dell’unità d’intenti tra Meloni e il suo vice, Matteo Salvini, suggellata dalla riunione del Cipess che ha dato il via libera definitivo al progetto del Ponte sullo Stretto di Messina, con uno stanziamento da 13,5 miliardi di euro. Un appuntamento pensato per mandare un messaggio preciso: mentre le toghe indagano, l’esecutivo costruisce. E lo fa senza incrinature, gomito a gomito.

La conferenza stampa a seguire, non a caso tenutasi nella sede del governo, ha visto Salvini presentare i dettagli dell’opera-simbolo della Lega, con Meloni che ha ribadito il proprio appoggio, ringraziando pubblicamente il leader del Carroccio. Parole cariche di significato politico, pronunciate durante la stessa riunione del Cipess, che hanno restituito centralità a un’alleanza fin troppo spesso attraversata da tensioni interne. In questo caso, le divergenze vengono silenziate da un obiettivo comune: difendere il governo e le sue scelte da quella che viene letta, nei corridoi del centrodestra, come una nuova offensiva della magistratura.

Che i riflettori siano ancora puntati sulla vicenda Almasri è evidente. Eppure, Salvini – rispondendo a una domanda diretta del nostro giornale – ha negato che se ne sia parlato nel faccia a faccia con Meloni a margine della riunione. Ma difficile pensare che l’argomento sia stato completamente evitato, anche solo per un rapido scambio di vedute. Anche perché la regia della difesa politica e giudiziaria del fronte governativo è nelle mani di Giulia Bongiorno, responsabile giustizia della Lega e avvocato di fiducia di Salvini, già al suo fianco nella battaglia sulla Open Arms e oggi legale degli esponenti dell’esecutivo coinvolti nel caso Almasri.

Ma c’è di più. Bongiorno non è solo l’avvocato dei ministri sotto inchiesta. È anche la firmataria della mozione congressuale approvata dalla Lega a Firenze, che chiede una grande mobilitazione del partito in favore della separazione delle carriere. Un obiettivo che torna prepotentemente al centro dell’agenda del centrodestra, con l’obiettivo dichiarato di arrivare a un referendum già nella prossima primavera. In questo quadro, la vicenda giudiziaria assume una valenza politica ben più ampia.

È l’occasione, forse perfino il pretesto, per riaccendere i motori su un tema che unisce la maggioranza e divide l’opinione pubblica. In questo senso, l'ennesimo tentativo di “spallata” giudiziaria ha sortito un effetto paradossale: anziché indebolire il governo, lo ha rafforzato nella sua narrazione. Le tensioni sulle candidature regionali – dalle quali si temevano strappi e veleni – sono momentaneamente scomparse. Le rivalità interne sono messe in pausa.

Al centro torna la riforma dell’ordinamento giudiziario, il vero collante della coalizione. E con essa, il ritorno a un lessico comune: garantismo, rispetto delle prerogative politiche, rifiuto dell’interventismo giudiziario. Tutti ingredienti che Meloni, Nordio e Salvini condividono, ciascuno con il proprio stile e i propri obiettivi. In questo contesto, il ponte non è solo un’infrastruttura. È un simbolo. Serve a unire – idealmente – la Sicilia al continente, ma soprattutto a mostrare che il governo è in grado di fare, decidere, realizzare. Anche quando è sotto assedio. Soprattutto quando è sotto assedio.

L’asse tra Meloni e Salvini, spesso scricchiolante su altri fronti, ritrova così coesione sulla difesa del principio di sovranità politica. Con un tempismo che non pare affatto casuale. Il segnale che si tenta di inviare è chiaro: da una parte il governo del fare, che sblocca opere e rilancia progetti strategici; dall’altra una magistratura che, con tempistiche sospette, si muove per colpire al cuore le scelte in materia di sicurezza e immigrazione.

È la stessa logica che ha sorretto la battaglia di Salvini per la legittimità dei decreti sicurezza, ora traslata su scala più ampia, a difesa di un’intera squadra di governo. Meloni, in questa partita, si gioca molto. Rispetto all'attacco di lunedì ha scelto una terza via: mettere in scena l’unità, celebrare i risultati, rafforzare la legittimità istituzionale del suo esecutivo. E farlo nel luogo per eccellenza del potere esecutivo: Palazzo Chigi. Lo scontro con le toghe continua, ma nel frattempo, il governo serra le fila e rilancia la propria offensiva comunicativa. E in questa battaglia può essere utile anche un ponte sullo Stretto a fare da sfondo.