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«Le censure articolate dal pubblico ministero ricorrente sembrano offrire degli elementi di rinforzo al ragionamento svolto dalla Corte di appello». Una trama ricostruttiva lacunosa. E, addirittura, un contributo a conferma delle conclusioni della Corte d’appello, che ha censurato l’impianto accusatorio decretando l’assoluzione. Tanto si legge nelle motivazioni con le quali la Corte di Cassazione ha assolto Claudio Foti, lo psicoterapeuta imputato nel processo sui presunti affidi illeciti “Angeli e Demoni” che lo scorso 10 aprile ha chiuso definitivamente i conti con la vicenda.
Foti, che aveva scelto il rito abbreviato, è stato assolto dall’accusa di abuso d’ufficio per non aver commesso il fatto e dal reato di lesioni sulla propria paziente - alla quale, secondo la procura di Reggio Emilia, avrebbe provocato un disturbo borderline - perché il fatto non sussiste. In 28 pagine, i giudici di Piazza Cavour smontano il ricorso della procura generale di Bologna, firmato anche dalla pm Valentina Salvi, attualmente impegnata nel processo che si sta celebrando con rito ordinario a carico di 17 persone a Reggio Emilia. L’accusa più grave era quella di lesioni, l’unica che avrebbe potuto dimostrare l’esistenza di un mai certificato “metodo Foti”. Che non aveva inventato nulla, limitandosi ad applicare le regole dell’Emdr - una tecnica trentennale per il trattamento di diversi tipi di trauma - nelle proprie sedute di psicoterapia.
La sentenza della Corte d’Appello di Bologna aveva ricordato l’esigenza di poter ricostruire in termini astratti «l’efficienza causale di un fenomeno», che è tale solo se esiste «una legge di copertura scientifica in grado di spiegare la relazione eziologica e di far funzionare, sul piano logico, il procedimento di eliminazione mentale». Servono regole codificate, insomma, «che riconducano un certo accadimento nell’orbita causale di un altro a partire da un criterio nomologico di certezza o di elevata probabilità». Nelle accuse mosse a Foti tutto questo, affermano Corte d’Appello e Cassazione, non c’è, come aveva dimostrato la difesa di Foti, rappresentata da Luca Bauccio.
I giudici d’appello hanno ritenuto dimostrati i due estremi della sequenza causale, ovvero la terapia di Foti e quella che è stata qualificata come «malattia», che avrebbe potuto integrare l’evento del delitto di lesioni. Ma il rapporto di derivazione causale della seconda dalla prima non c’è. «Ciò per l’assorbente rilievo che la prova scientifica portata dal pubblico ministero a fondamento dell’ipotesi di accusa, e acquisita nel corso del processo sotto forma della relazione scritta del consulente tecnico di parte e del suo successivo esame orale, non aveva consentito di individuare quale legge scientifica di copertura ricostruisse, in termine di certezza o di elevata probabilità, la capacità delle terapie somministrate di ingenerare le psicopatologie riscontrate a carico della minore. Ciò sul rilievo, da un lato, che le patologie in questione, secondo la letteratura scientifica richiamata dalla difesa dell’imputato e puntualmente riportata nella sentenza impugnata, e in particolare il cd. “disturbo borderline di personalità”, si formi nei primi anni di vita, manifestandosi poi nell’adolescenza e nell’età adulta; e, dall’altro lato, che la giovane avesse palesato un fortissimo disagio psichico ben prima che iniziasse a esserle somministrata la terapia - si legge nella sentenza -. Ciò che, ancora una volta, in assenza di “un percorso generalizzante di carattere scientifico seguito dai consulenti del pubblico ministero e quindi dal giudice di primo grado ai fini dell’accertamento del nesso eziologico” ha portato condivisibilmente la Corte territoriale a escludere la configurabilità di un rapporto di derivazione causale tra gli interventi psicoterapici e il quadro clinico della giovane».
Ed ecco, appunto, che il ricorso della procura non avrebbe fatto altro che confermare le censure mosse dalla Corte d’Appello, secondo la Cassazione. «È, infatti, evidente che laddove il ricorso deduce, con il primo motivo, una sorta di travisamento per omissione del contributo del consulente, lamentando che la sentenza non abbia tenuto conto delle integrazioni riportate dall’esperto in sede di esame orale, definita come “ben più lunga e approfondita” rispetto alla relazione - continua la sentenza -, esso finisce per ammettere che la relazione tecnica non offrisse una spiegazione appagante in relazione al profilo ritenuto lacunoso dalla sentenza: ovvero in relazione alla esistenza di una legge scientifica in grado di affermare, alla stregua di un’osservazione protratta nel tempo di fenomeni analoghi, una stretta relazione tra quel tipo di intervento terapeutico concretamente somministrato e quel tipo di patologie successivamente insorte a carico della minore. E d’altra parte, laddove il ricorso ha richiamato il menzionato esame orale al fine di affermarne, invece, l’idoneità a stabilire, su un piano scientifico, la ricordata connessione causale, esso non ha fornito, in realtà, quella puntuale esplicazione di tale meccanismo che si riteneva necessaria». Insomma, a carico di Foti non ci sarebbe niente.
Tant’è che «il richiamo alla letteratura scientifica che, in tesi, avrebbe sostenuto le conclusioni del consulente di parte è rimasto del tutto evanescente, venendo soltanto evocato, ma non sottoposto alla doverosa verifica da parte del giudice». E anzi, di fronte alle censure dei giudici d’appello il ricorso ha spostato «il fuoco dell’evento lesivo dalle psicopatologie indicate nel capo di imputazione ( di cui non era stata dimostrata la derivazione dalle terapie somministrate) a una situazione di marcato disagio psicologico della giovane, nel quale si intrecciavano gli effetti del ricordo di eventi traumatici provocati dal terapeuta, problemi di dipendenza da sostanze e, infine, una condizione di sofferenza esistenziale certamente acuta, ma ben diversa dalle specifiche patologie psichiatriche indicate nell’originaria contestazione».
Insomma, una «essenziale lacuna nella trama ricostruttiva» e un ricorso che «non ha affrontato tale profilo fondamentale» - il nesso di causa - «preferendo soffermarsi su altri aspetti, tutti ruotanti sulla situazione di grave sofferenza della minore, certamente dimostrati nella loro esistenza, ma di cui è rimasta indimostrata, alla stregua delle regole di accertamento processuale di un aspetto così rilevante dell’elemento oggettivo del reato, la effettiva riconducibilità all’azione dell’imputato. E in questo modo esso si è rivelato come del tutto aspecifico e, come tale, inammissibile, non essendo riuscito a cogliere alcun profilo di manifesta illogicità della motivazione».
Anche per quanto riguarda l’accusa di abuso d’ufficio la Cassazione piazza una pietra tombale sulla tesi accusatoria. «La Corte scrive parole molto significative commenta al Dubbio Bauccio -, pur nel ristretto spazio del suo sindacato. Anzitutto, la surreale questione delle tariffe per le ore di psicoterapia che sarebbero state gonfiate, “oltre la media”. È un leitmotiv dell’accusa che aveva fatto presa anche in primo grado. Nel nostro ricorso abbiamo nuovamente chiarito che le tariffe erano inferiori ai massimi previsti dalla legge e che il valore medio è una libera invenzione che non ha alcuna base metodologica e giuridica. La Corte richiama questo argomento e ratifica decisione della Corte d’appello come una logica e implicita caducazione di questo argomento d’accusa». Ma c’è un passaggio particolarmente importante per le possibili ricadute sul processo in corso a Reggio Emilia. Secondo la Corte, infatti, la procura generale non ha dimostrato «in che modo il cervellotico sistema di fatturazione possa avere rappresentato “una attività di materiale compartecipazione all'attività amministrativa ritenuta illegittima”, essendo ovviamente la stessa successiva al primo conferimento degli incarichi e non precedente ad essi». Il tema è tutto qui: «Come abbiamo messo in evidenza nel nostro ricorso in Cassazione - aggiunge Bauccio -, fatti successivi al conferimento del bando e all’incarico non possono sostanziare l’abuso d’ufficio. E l’incarico qui è seguito ad un bando ed è stato confermato da una delibera. Come possono condotte successive come la semplice emissione di qualche fattura ritenuta non regolare mutare la natura lecita di un bando in illecita? Sappiamo che la questione è ancora aperta in primo grado, non voglio entrare ulteriormente nel merito, ma l’inciso della Corte è un faro logico e giuridico che finalmente illumina a beneficio di tutti i fatti».
Sulle lesioni personali, ha aggiunto il legale, «la Corte ha confermato l’esattezza della impostazione che come difensore ho subito dato alla vicenda. Senza una legge di copertura scientifica non è possibile stabilire nesso di causa tra fenomeni. Quando manca una legge di copertura non ha neppure senso indagare sui fenomeni in correlazione ed anzi ogni indagine rischia di risultare una indebita invasione in ambito professionali e scientifici. Eppure tutta l’accusa nella vicenda Bibbiano si fonda su questa pertinace pretesa: giudicare un metodo psicoterapeutico, mettersi al posto di uno psicologo e stabilire cosa deve dire e cosa no, cosa deve credere vero e cosa falso. Pena, la comminazione di una sanzione clinico penitenziaria: la diagnosi di un grave disturbo psichico. Ma questa prospettiva è incompatibile con il giudizio penale e ricusata dalla scienza. Credo che la Corte di Cassazione con la sua sentenza abbia ricordato a tutti quali sono i limiti del ragionamento giuridico e quale è la frontiera oltre la quale un giudizio può trasformarsi in una caccia alle streghe». Insomma, altro che lupo di Bibbiano.