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“Eroe della sesta giornata”: così si definisce quel personaggio che si intruppa ai vincitori quando ormai il pericolo è passato, la vittoria conquistata, la lotta (nello specifico le famose cinque risorgimentali giornate della rivolta milanese contro gli austriaci), finita. Poi ci sono i “professionisti del reducismo”, spesso millantatori. Non foss’altro per anagrafiche ragioni, non possono essere reduci di nulla; e in quanto alla professione, diciamo che vanno dove li porta il cuore, a volte; o l’interesse, spesso. Categorie che spesso, come la cattiva erba finiscono col soffocare quella commestibile; moneta di pessimo conio che soppianta quella “buona”. Considerazione generale, vale per la storia in genere, e le “storie” che poi ne fanno parte. Per questo sono importanti le “memorie”; quelle che si ricavano dai diari, dalle lettere, dai memoriali; i racconti che si tramandano; poi è compito degli storici depurare i ricordi, le memorie dalle scorie che inevitabilmente contengono: come il diamante estratto: prima di diventare un prezioso gioiello, va pazientemente, sapientemente lavorato. I rischi di chi scrive di storia sono sempre tanti: non solo la fatica di trovare le giuste fonti; immancabilmente ci si imbatte, appunto, negli “eroi della sesta giornata”, quelli che raccontano, senza esserci mai stati, con dovizia di particolari, cos’è accaduto quel giorno specifico. Chi davvero c’era, nel vederli in “esibizione”, nell’ascoltarli, non può che pensare alla fulminante battuta di Ennio Flaiano: “Quelli là, credono di essere noi”. Tocca dunque sbrigarci, noi che c’eravamo, e che ancora ci siamo; tanti, purtroppo, se ne sono andati, di loro è rimasta labilissima traccia. Quel 12 maggio 1977, dunque: già 45 anni fa: una quasi vita… Quel giorno una studentessa romana di 19 anni appena, Giorgiana Masi, vuole trascorrere la serata in compagnia del fidanzato, e ascoltare musica. Si dirige a piazza Navona, luogo fissato per un annunciato concerto. Non ci arriverà mai. All’altezza del ponte di Garibaldi si trova coinvolta in una immotivata, brutale carica dei carabinieri. Qualcuno, dalla parte delle forze dell’ordine, esplode dei colpi di pistola, un proiettile raggiunge la ragazza alla schiena. Colpita, cade a terra, muore. Sono circa le 20 di sera. Questi, i fatti, nella cruda essenzialità. C’è un contesto. Quello che si è scritto finora è appena una parte di un “tutto” che ancora, a quasi cinquant’anni dai fatti, attende di essere spiegato in modo soddisfacente: sotto il profilo giudiziario, politico, storico. Nel volume che raccoglie i diari dell’ambasciatore Ludovico Ortona negli anni in cui è stato Consigliere Stampa di Francesco Cossiga, presidente della Repubblica, alla data 16 maggio 1987, si legge: “Esce su alcuni quotidiani un attacco di Pannella a Cossiga sulle vicende dell’epoca in cui era ministro dell’Interno (Giorgiana Masi, caso Moro). Lo vedo piuttosto turbato, anche se poi si riesce a ridimensionare l’episodio dicendogli che è un attacco del solito Pannella. Ne è chiaramente dispiaciuto”. Indicativo quel “si riesce a ridimensionare l’episodio”; sarebbe interessante sapere “chi”, ha ridimensionato; “come” ha ridimensionato; quanto al “perché” lo si intuisce. C’è quel “dispiaciuto…”: il presidente della Repubblica a cui Pannella rimprovera il ruolo giocato sulle vicende Masi e Moro, si “dispiace”. Crediamoci. Ma limitarsi a un “dispiacere” è davvero poca cosa. Ben altro che il dispiacere, per quei due tragici eventi che sono alla base della polemica accesa da Pannella. Si torni, ora al quel 12 maggio 1977. Il Partito Radicale convoca a piazza Navona un concerto. Si festeggia l’anniversario della vittoria del NO all’abrogazione della legge sul divorzio, e si raccolgono le firme per altri referendum abrogativi di legge fasciste, autoritarie, liberticide. Dal ministero dell’Interno, “governato” allora da Cossiga, arriva un NO: manifestazione vietata. Quale sia il timore che si nutre nelle inutilmente austere stanze del palazzone progettato dall’architetto Manfredo Manfredi nel 1911, non è dato sapere. Mai i radicali sono stati un problema per quel che riguarda l’ordine pubblico. Perché quell’assurdo divieto? E cosa si “prepara”, cosa nasconde, sottende quel NO improvviso, a manifestazione già convocata? Naturalmente nessuno sospetta che si stia preparando quello che poi accadrà. Ingenuità? Forse, ma col senno del dopo. Come che sia, quel giorno Roma è in stato d’assedio: mancano solo i carri armati; per il resto, c’è tutto: poliziotti e carabinieri in assetto di guerra, caschi, scudi, lacrimogeni, fucili usati come sfollagente; e tanti agenti in borghese, travestiti da autonomi: rivoltella in pugno, spranghe in mano: infiltrati tra i manifestanti: ore e ore di provocazioni, aggressioni, botte, arresti; si spara ad altezza d’uomo, e non per legittima difesa, sia chiaro. Gli incidenti cominciano alle 14, vicino al Senato; coinvolgono ragazzi, turisti, passanti. Calci, pugni, sputi ai parlamentari che pur si qualificano come tali, e anzi, magari li si aggredisce con maggiore gusto e cura. Di questo, chi scrive, è diretto testimone e vittima: conservo ancora con somma cura la giacca di renna dilaniata dai carabinieri; e una istantanea che mi “fissa” mentre sono malmenato; la ritroverò pubblicata sulla tedesca “Stern”. La didascalia parla di “autonomo milanese” durante non precisati scontri (a prova del fatto che la “precisione” non è solo del giornalismo italiano). Gli scontri si allargano a macchia d’olio, tutto il centro città è coinvolto in questa programmata follia: fino a Trastevere e oltre, una vera caccia all’uomo. A ponte Garibaldi, Giorgiana è colpita alle spalle, muore. Nessun agente o carabiniere, in divisa o in borghese ha sparato, dice il sottosegretario agli Interni Nicola Lettieri, subito smentito dai fatti. “Fuoco amico”, insinua Cossiga. “Amico” di chi? Non certo di Giorgiana, colpita alle spalle, mentre cerca di fuggire. E’ tutto documentato, nel libro bianco, le testimonianze, le fotografie, i filmati che il Partito Radicale diffonde poche ore dopo i “fatti”. Una documentazione inoppugnabile, mai smentita. Uno straordinario documento, il racconto di una strage cercata e voluta; e più che mai si può citare l’Elias Canetti de La provincia dell’uomo: “La frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto ‘al momento giusto’”. Chi ha sparato a Giorgiana e l’ha uccisa è uno dei tanti misteri italiani. Tutti ricordano la foto di Giovanni Santone, il poliziotto in borghese, maglione bianco con una banda scura, pistola in mano, spranga bianca nell’altra, borsa di Tolfa a tracolla (per la carta igienica, racconterà poi); ma la prova regina, la testimonianza fondamentale è un’altra: un video girato in “super 8” da una signora che abita in piazza della Cancelleria in cui si vedono chiaramente due poliziotti in divisa, nascosti dietro le colonne, che estraggono la pistola dalla fondina e sparano ad altezza uomo. Quelle immagini smentiscono clamorosamente quanto detto dal sottosegretario Lettieri in Parlamento: “Le forze di polizia non fecero uso di armi da fuoco”. Si cercava il morto. Si voleva il morto. Purtroppo il morto c’è stato. Questi i fatti. Vissuti e raccontati da chi ha vissuto le “cinque giornate”; e ora ascolta con amarezza divertita i racconti di chi è accorso il sesto giorno.