Non credo sia così difficile comprendere l’abissale gravità dell’impedire a un difensore di impugnare una sentenza ingiusta. Il vedere una decisione che si sa essere errata trasformarsi in una condanna definitiva che sarà prima o poi eseguita nei confronti di un innocente. Non credo sia difficile immaginare il senso di frustrazione che il difensore avverte quando vede umiliata la propria funzione, che dovrebbe essere proprio quella di tutelare i diritti e le garanzie del cittadino “in ogni stato e grado del procedimento”, così come recita la nostra Costituzione, e che invece viene compressa attraverso la previsione di irragionevoli ed irrazionali formalismi.

E questo senso di umiliazione e di frustrazione si trasforma in un senso di rivolta morale e di indignazione quando tali inaccettabili mutilazioni del fondamentale diritto di impugnare una sentenza ingiusta vengono giustificate dalla necessità di operare una deflazione del numero dei processi nel nome di regole che non possono essere certo condivise, se la posta in gioco è quella della svendita dei diritti e della morte del processo.

Perché tale è il destino fatale di un processo penale che non sia più in grado di tutelare quel livello minimo di giustizia costituito dalla garanzia di un secondo grado di giudizio, tutelato dalla Costituzione come primo presidio della libertà personale. Sono infatti ben altri gli strumenti attraverso i quali deve perseguirsi la ragionevole durata del processo: la razionalizzazione delle regole, la semplificazione del modello, la depenalizzazione e l’aumento delle risorse. Ma quel che è certo è che in nessun caso uno Stato di diritto può immaginare di barattare sul piano finanziario del Pnrr i diritti dei propri cittadini. E ciò che appare ancor più grave è il fatto che questo limite alle impugnazioni colpisce in particolare le fasce più deboli dei cittadini di fronte al processo, coloro che non hanno un difensore di fiducia e che sono assistiti da un difensore di ufficio, che sono privi di un domicilio stabile, i soggetti culturalmente e socialmente più fragili, destinati a varcare le soglie del carcere in esecuzione di sentenze la cui giustizia nessun giudice ha avuto modo di controllare.

Attendevamo da molti mesi di avere dal Ministro e dalla politica una parola semplice e chiara di coraggio e di coerenza, una risposta con la quale si rinnegasse in maniera netta quella idea che i diritti fondamentali possano essere negoziati su base deflattiva, che interi pezzi di processo possano essere svenduti nella speranza di raggiungere un obbiettivo finanziario.

Attendevamo anche che ci si dicesse se è davvero ragionevole impedire la proposizione degli appelli, dovendo poi tuttavia garantire tutti i rimedi successivi imposti dalle regole europee, i quali produrranno inevitabilmente, in futuro, un numero doppio di impugnazioni. E che dire, infine, del fenomeno collaterale che queste inique norme processuali produrranno, di un rapido e progressivo aumento del numero dei condannati che faranno ingresso nelle nostre carceri sovraffollate, in base a sentenze che non possiamo non ritenere, su elementari basi statistiche ed esperienziali, con alta probabilità errate o ingiuste, essendo stati privati i condannati del diritto di impugnarle tramite il proprio difensore. Tutto ciò con un dispendio di risorse umane ed economiche, di vita e di umanità.

L’avvocatura tutelerà questo nucleo essenziale di diritti processuali con tutti propri mezzi, convinta che in essi siano riposti i destini delle garanzie tutte della persona di fronte al potere punitivo dello Stato.