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Foto Vatican Media/LaPresse 14-04-2022 Civitavecchia Cronaca Giovedì Santo: Papa Francesco lava i piedi a dodici detenuti nel carcere di Civitavecchia DISTRIBUTION FREE OF CHARGE - NOT FOR SALE
Dicono che è nella storia. Che è stato il Papa della rivoluzione. Lui, Jorge Mario Bergoglio, non si mai è posto il problema. Non ha mai perso tempo ad autocompiacersi. Aveva altro da fare. Cambiare la Chiesa, soprattutto. Lasciare una traccia. Non nella storia, ma almeno nel sistema di cui era al vertice.
E così Francesco, morto oggi alle 7.35 a 88 anni, per un ictus, nelle sue ultime ore può anche darsi abbia pensato che la Pasqua, cioè il “passaggio”, volesse dire per lui l’approssimarsi della fine, l’addio all’esperienza terrena. Ma non si è fermato a pensare neppure nell’augurio rivolto domenica ai fedeli con un filo di voce, né nell’incontro con James David Vance, il vicepresidente Usa già nella storia per aver condiviso l’ultimo atto “istituzionale” del Pontefice.
La fine, il “passaggio”, per Bergoglio, poteva arrivare nella lunga sofferenza del Gemelli come nel lunedì dell’Angelo. Non importa. Non importava a lui.
Insistono con il titolo di “rivoluzionario”. Ne esaltano il “carisma eccezionale”. Altri, forse più giustamente, preferiscono ricordarne l’umanità, che non è mai stata oscurata dallo scettro. E Francesco l’umanità ha voluto guardarla negli occhi fino alla fine, fino a un minuto prima di andarsene: la visita a Regina Coeli nel giovedì santo è il suo estremo gesto pastorale. Le sue scuse ai detenuti per non potersi chinare nella consueta lavanda dei piedi, la vicinanza ai reietti, ai dimenticati nelle carceri, dicono tutto.
Francesco ha cambiato gran parte dei cardinali che ora in conclave dovranno sceglierne il successore. Ha mutato anche la liturgia delle esequie papali: una sola “traslazione”, la sua salma sarà offerta mercoledì all’omaggio dei fedeli in San Pietro. La sepoltura fuori le mura, a Santa Maria Maggiore, e non sotto la Basilica Vaticana, dove riposano invece Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, i due predecessori. Sempre mercoledì sarà a Roma Javier Milei, il presidente argentino, che aspetterà fino ai funerali, forse lunedì prossimo.
Non ha cambiato il mondo come riuscì a Wojtyla, ma Bergoglio ha cambiato la Chiesa più del Papa polacco. Non si è risparmiato. Si è speso fino all’ultimo. Nei 39 giorni di ricovero al Gemelli, dal 14 febbraio al 23 marzo, ha telefonato al monastero latino di Gaza ogni volta che gli è stato possibile. Padre Gabriel Romanelli, parroco della Striscia, lo ha ricordato ancora oggi.
E anche se la sua ostinazione, da sola, non è bastata ad arginare le guerre, Francesco ha costruito nei suoi dodici anni pieni di pontificato il futuro della Chiesa cattolica. Ha creato le condizioni per una successione in continuità: i 108 cardinali nominati da Bergoglio si riuniranno con gli altri 27 che formano il Conclave non più tardi del 10 maggio (e quasi certamente in una data a partire da lunedì 5). Sì deve al Pontefice argentino la prima commissione di studio vaticana sul diaconato delle donne, preludio alla vera rivoluzione che un giorno, magari, aiuterà la Chiesa cattolica a sopravvivere.
Non ha mai conquistato le simpatie di Donald Trump, che infatti invoca la «benedizione di Dio» su di lui e su «coloro che lo hanno amato», in modo da autoescludersi. Se n’è andato ad abitare a Santa Marta anziché nelle tradizionali stanze del Palazzo Apostolico. Oggi un osservatore scosso dalle novità portate da Francesco, Massimo Franco, autore di “L’enigma Bergoglio”, ha detto, in un’intervista durante la fluviale diretta di Radio Uno Rai, che il Papa argentino ha sì cambiato il clero ma ha anche creato «una propria nuova corte». Certo, un Papa “di rottura” lo è. Lo resterà.
“Pace” è stata, negli ultimi anni, la parola che ha pronunciato più spesso, in compagnia di pochi, e di Sergio Mattarella tra questi. Ha ricordato già poco dopo l’elezione, avvenuta il 13 marzo del 2013, che Maria e Giuseppe, prima e dopo la nascita di Gesù furono “migranti”: ha cercato in tutti i modi di suscitare una pietà che ancora l’Occidente fatica a provare, per gli esuli. Ha chiesto umanità, ed è rimasto umano. Ha predicato l’ecumenismo di una modernità capace di riconciliarsi con l’ambiente, con il “creato”, è stato globale ma ha predicato senza imbarazzi anche uno spirito di appartenenza, persino con la sua passione per il fútbol, per il suo Almagro, il San Lorenzo.
Lì, a Buenos Aires, è nato da due piemontesi, il ragionier Mario e mamma Regina Sivori, volati alla “fine della terra”, come Jorge ha chiamato la sua Argentina appena affacciatosi su piazza San Pietro. È l’unico Papa ad aver parlato col predecessore. Sul suo legame e sulla sua distanza con Joseph Ratzinger, si sono dilungati scrittori e registi. Ma lui non ha rincorso i panegirici, ha preferito investire fino all’ultimo le energie in un pragmatismo a volte anche brutale.
La sua rinuncia a “giudicare” gli omosessuali ne ha screziato in modo irrimediabile il rapporto col cattolicesimo tradizionalista, assai più delle aperture alla comunione per i divorziati. Sapeva di dover pagare un prezzo, per il cambiamento. E il prezzo più alto, per questo gesuita pieno di amore per gli ultimi, è in un esito ormai certo: se ci sarà una vera rivoluzione, nella Chiesa, si compirà con qualcun altro. Lui ne ha creato le premesse. Non ha cercato né voluto primati.
Di altri Pontefici, i credenti hanno percepito la vicinanza. Ma era una forma capovolta per descrivere la sorpresa di una santità meno distante del previsto. Francesco è stato davvero tra le persone, tra gli ultimi e tra il suo popolo. Se lo rimpiangeranno, sarà per questo. Ma non era il suo obiettivo. Il suo obiettivo era andare avanti.