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Mahsa Amini
È una vampata che attraversa tutto l’Iran da oltre due mesi e che scuote le fondamenta della repubblica sciita. In prima linea le donne, delle grandi città, dei campus universitari ma anche nei piccoli centri di provincia dove il consenso degli ayatollah sembra ancora altissimo e la tradizione regna sovrana. E dietro di loro tutta una generazione, quella dei venti trentenni nati quando il regime aveva già esaurito la spinta propulsiva della Rivoluzione e che hanno conosciuto solamente la repressione di Stato e una classe politica di dinosauri integralisti. Certo, negli inverni del 2017 e del 2019 in Iran ci sono state massicce proteste di piazza, ma si trattava di un movimento “classico”, perlopiù di lavoratori maschi che protestavano contro l’inflazione e la crisi economica, in particolare contro l’aumento dei prezzi del carburante, la miccia che fece scoppiare la contestazione e che come sempre fu repressa nel sangue. Ora in piazza ci sono invece migliaia di giovani di ogni classe sociale che chiedono più libertà, libertà di movimento, di pensiero, di abbigliamento, gridando “morte alla repubblica islamica”. E la miccia stavolta è stata innescata da un orrendo crimine: la morte di Mahsa Amini, la ragazza di origine curda arrestata dalla polizia religiosa a Teheran il 16 settembre perché indossava il velo in modo «non conforme» e deceduta due giorni dopo in circostanze mai chiarite. Il suo sacrificio ha unificato la rabbia a livello nazionale, dando vita a un movimento del tutto diverso da tutti quelli che lo hanno preceduto per ampiezza e radicalità. Non era mai capitato infatti che la polizia facesse irruzione a Narmak, quartiere popolare di Teheran e feudo dell’ex presidente ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad, una storica roccaforte del consenso al regime oggi ribollente di cortei e manifestazioni. O che alle proteste si unissero anche i proprietari agricoli o i grandi commercianti dei bazar che non proclamavano lo sciopero dalla primavera del ’79 , una classe produttiva che è sempre stata dalla parte degli ayatollah e che adesso chiede un’alternativa politica. C’è poi una dimensione anticlericale manifesta, una messa in discussione dell’influenza claustrofobica che i vertici religiosi esercitano su tutta la società iraniana, dalla sfera privata alla vita pubblica. Lo “schiaffo del turbante”, il gesto provocatorio diventato virale sui social network con cui i giovani fanno cadere per terra i copricapo dei mullah peraltro è stato mutuato dalla Rivoluzione del ’79 quando i militanti khomeinisti sbeffeggiavano i chierici “collaborazionisti” con il sistema politico guidato dallo Scià Reza Palevi e con la sua spietata polizia segreta . Ma il nocciolo duro del regime, religiosi, pasdaran, ufficiali dello stato maggiore, resiste, ossificato ma compatto. E rilancia, facendo quadrato attorno alla declinante guida suprema Alì Khamenei e al monopolio della violenza, rispondendo alle piazze con una repressione durissima: oltre 250 i manifestanti uccisi secondo le ong il governo parla di 150 vittime), migliaia gli arresti. Con i tribunali, che alla fine di processi farsa, hanno già emesso le prime condanne a morte per impiccagione. Decine i reporter finiti in cella il che fa dell’Iran la terza “prigione” al mondo per i giornalisti dopo la Cina e il Myanmar della giunta golpista. Nell’impeto fanatico di ristabilire l’ordine il regime trova anche l’occasione di regolare vecchi conti aperti. Come con i poveri curdi, bombardati dalle milizie governative nelle città di Bukan, Javanrud, Mahabad e Piranshahr, teatro anch’esse di imponenti cortei e scontri con le forze dell’ordine che arrestano i feriti facendo irruzione negli ospedali. Oppure nello sperduto e sottosviluppato Baluchistan regione al confine pakistano a maggioranza sunnita che rappresenta il 3% della popolazione ma conta quasi un terzo dei manifestanti uccisi. È questa radicalizzazione del conflitto, anche dal punto di vista militare, l’aspetto più pericoloso per Khamenei e soci, neanche più capaci di mettere in scena la dialettica formale tra riformisti e conservatori ma soprattutto di aprire canali di mediazione con gli oppositori. E le generiche accuse agli stati Uniti e alla Cia che avrebbero occultamente orchestrato le rivolte sono un mantra a cui non sembra credere neanche chi lo pronuncia. Bisogna stare attenti però a non interpretare questo potente movimento di contestazione attraverso gli schemi delle democrazie occidentali o peggio con spocchia paternalista, pensando che i giovani iraniani vogliano costruire una società “come la nostra”. Aspirano come tutti noi diritti e libertà, che però non sono un esclusiva dell’Occidente e se un giorno vinceranno la battaglia dovranno decidere loro e soltanto loro quale sarà il volto dell’Iran di domani.