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giustizia
Francesco Cavallari, ex presidente delle Case di Cura Riunite di Foggia, considerato il “re Mida” della sanità privata barese, non è/era un mafioso. Lo ha stabilito due giorni fa la Corte d’Appello di Lecce accogliendo la richiesta di revisione del processo avanzata dai figli Daniela e Alceste Cavallari, assistiti dagli avvocati Vittorio Manes, Gaetano Sassanelli e Mario Malcangi. La Procura generale, dopo molte tribolazioni, come ci spiega proprio Sassanelli, «ha aderito alla nostra richiesta e ha ritenuto, queste le sue parole, il nostro ragionamento giuridico inconfutabile». Il legale, al margine della decisione, ha rilasciato dichiarazioni molto dure: «Un sistema giudiziario che sovverte il principio della innocenza è un sistema che si condanna all'infamia. Come difensori oggi c’è molto poco di cui esser contenti perché si è certificata la più grossa ingiustizia consumata nel nostro distretto di Corte di appello, senza che la vittima di questa ingiustizia abbia potuto assistere al suo riscatto». Cavallari, infatti, è morto purtroppo lo scorso anno a Santo Domingo, all’età di 83 anni, dove continuava a professare la sua innocenza. Malato da tempo, era ancora in attesa della revisione del processo, soprattutto in seguito all'assoluzione di tutte le altre persone coinvolte. «Il dottor Cavallari – ha spiegato ancora Sassanelli - è stato lasciato morire in esilio come il peggiore dei mafiosi ed oggi invece è stato finalmente ufficializzato quel che in realtà tutti sapevano e cioè che mafioso non lo è mai stato. Se quella è stata l'operazione “Speranza” questa è stata l'operazione “Verità”». I giudici di Corte di Appello, nel dettaglio, hanno revocato la sentenza di patteggiamento a 22 mesi di reclusione nei suoi confronti, limitatamente al reato di associazione mafiosa, reato per il quale non è potuto rientrare in Italia per l’ostatività della condanna. Confermata invece per gli episodi di corruzione e falso in bilancio. I giudici hanno rideterminato la pena fissandola a un anno e quattro mesi di reclusione. La sentenza risale al ’95, diventata definitiva nel ‘96. La revisione del processo potrebbe aprire la strada ora alla restituzione dell’ingente patrimonio confiscato (pari a 350 miliardi lire) e/o una domanda di risarcimento per i danni subiti. Questa vicenda, ci spiega Sassanelli, risale agli anni ’90: «Questo procedimento giudiziario è in parte figlio del clima dell’epoca. Allora spesso l’azione penale non era esercitata come strumento di accertamento dei reati ma come strumento di lotta anche politica, se non addirittura di vendetta». In quel clima «si sviluppò una forte ostilità nei confronti dell’imprenditore che in realtà aveva creato un sistema sanitario privato di eccellenza che aveva abolito i viaggi della speranza. Chi voleva curarsi anche per gravi malattie non era più costretto ad andare in altre regioni o all’estero. Inoltre le sue cliniche davano lavoro a migliaia di dipendenti». Questo successo dell’imprenditore Cavallari «ha dato parecchio fastidio politicamente ed è iniziata un’opera di delegittimazione nei suoi confronti». Poi arrivò l’arresto all’alba del 28 marzo 1995 per 416bis, a seguito di una inchiesta condotta dalla Direzione distrettuale antimafia di Bari, insieme con la Dna. Secondo l’accusa era il promotore di una associazione mafiosa, creata insieme ai più pericolosi criminali di Bari e provincia, finalizzata, attraverso atti intimidatori, a procurare vantaggi per le sue attività e per intimidire i concorrenti. «Fu condotto nel carcere duro di Pisa, nonostante fosse afflitto da una grave malattia cardiaca che gli costò anche un’operazione durante la detenzione. Durante il trasferimento l’uomo si sentì male ma il trasferimento proseguì egualmente. E rimase in prigione diversi mesi. Poi perse anche il suo primo avvocato, il professor Gaetano Contento, estensore del ricorso per Cassazione contro l’ordinanza di custodia cautelare che fu annullata sui gravi indizi dagli ermellini. Il legale, molto stimato sul piano umano e professionale, fu costretto a rimettere il mandato difensivo perché fu ingiustamente, come i fatti hanno dimostrato, messo sotto processo per infedele patrocinio». In questa situazione, «che dal punto di vista di Cavallari era una tortura – avvocato storico impossibilitato a difenderlo e carcerazione prostrante –, l’uomo crollò e decise di rendere dichiarazioni autoaccusatorie pur di recuperare la libertà. Confessò la corruzione ma si disse sempre innocente per l’accusa di mafia. Poi però - ha sempre raccontato - gli fu prospettato un patteggiamento con sospensione della pena anche per il 416bis che prevedeva anche la restituzione dei beni sequestrati. In realtà poi il patrimonio venne confiscato e le cliniche fallirono. Cambiò letteralmente la storia della città di Bari, perché moltissime persone persero il lavoro». In realtà, spiega ancora Sassanelli, Cavallari fu vittima della mafia: «Gli fecero esplodere delle bombe, quelle vere, perché, tra l’altro, la criminalità organizzata voleva estorcergli anche assunzioni». Dopo il patteggiamento, Cavallari si trasferì a Santo Domingo: «Con una condanna per mafia, decise di lasciare l’Italia. Nel prosieguo – continua Sassanelli – sono diventato il suo legale ed avevo organizzato il suo rientro in Italia in quanto era gravemente malato e non poteva curarsi in loco: due giorni prima che prendesse il volo già acquistato purtroppo è morto. In esilio, senza che abbia potuto assistere al riscatto della sua immagine».