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Ci sono medici e avvocati, in Parlamento, a decine; e ingegneri e professori, a decine; e imprenditori e commercialisti, a decine. Ora c’è anche un cafone. Solo uno, ma ne vale cento. Si chiama Aboubakar Soumahoro e di mestiere si spezza la schiena nelle campagne.
Come migliaia di immigrati al cui lavoro bestiale dobbiamo i nostri pomodori, le nostre verdurine, le nostre arance e i nostri minestroni – ma non vogliamo vederlo, non vogliamo saperlo. Come crescessero e si potessero cogliere per magia negli scaffali dei supermercati o nei banconi dei surgelati. Che rimangano nascosti, quegli immigrati, lontano, nelle loro baracche, a arrostire nel sole violento o talvolta nell’incendio di quelle strutture fatiscenti, per un fornello o una stufetta.
È arrivato con i compagni dei campi, Abou, e i loro cappellini colorati, per l’inizio della nuova legislatura. È arrivato con gli stivali infangati, Abou, per ricordare a tutti da dove viene. Ha la giacca e la cravatta d’ordinanza – ma i suoi piedi sono immersi nella realtà, «in memoria di chi è morto di lavoro, chi è discriminato e chi ha fame». È un gran giorno, questo, per il Parlamento italiano – se solo volessimo capirlo. Se solo volessimo capire che questo è un paese vecchio, malato, indifferente, racchiuso in se stesso, e, come tutti i vecchi, malati e indifferenti e racchiusi in se stessi, egoista fino al midollo. Arretrato, nelle strutture produttive, nelle forme del lavoro.
Dispotico nei rapporti di lavoro – sfruttatore. La politica balla sull’orlo di un paese in rovina, chiuso in se stesso, incattivito. Tra quei velluti e quelle moquette, tra quelle poltrone damascate cammineranno ora i passi infangati di Abou – la sua dignità, la sua ostinazione, il suo nobile impegno. Porterà la volontà dei suoi cafoni – di avere leggi e salari giusti, di vedere riconosciuto il loro lavoro e la loro persona, di essere considerati, come sono, cittadini come gli altri.
Dai ghetti del foggiano, dalle baraccopoli della Calabria, dalle battaglie contro il caporalato e la mafia, è la voce antica e nuova del lavoro. È un gran giorno, questo, per il Parlamento italiano.