Francesco Lollobrigida, capogruppo uscente di Fratelli d'Italia alla Camera, a Repubblica ha spiegato come il suo partito abbia intenzione di modificare la Costituzione: «Senza stravolgerla e con la collaborazione di tutti». Tra le riforme più discusse quelle del presidenzialismo e dei rapporti con la Unione Europea. Non si parla invece di giustizia. Tuttavia, tra i possibili ministri del prossimo Governo di centrodestra, c’è il neo senatore di Fratelli d'Italia, Marcello Pera, quotato sia come Guardasigilli ma soprattutto come ministro delle Riforme Costituzionali.

Proprio l’ex presidente di Palazzo Madama nel lontano 1997 sottoscrisse, quando era ancora in Forza Italia, insieme ai vecchi colleghi Grillo e Greco, un disegno di legge costituzionale (Modifiche agli articoli da 100 a 113 della Costituzione) che, se approvato, avrebbe modificato due importanti assetti del sistema ordinamentale. Due obiettivi: “Unicità della giurisdizione” e “Separazione delle carriere. Diversificazione del Consiglio superiore della magistratura. Fissazione delle priorità nell’esercizio dell’azione penale”. Torneranno in auge, causando grandi mal di pancia soprattutto tra i pubblici ministeri? Sì, se le promesse elettorali del centrodestra verranno mantenute.

Intanto ricordiamo il vecchio progetto. Con il primo obiettivo si sarebbero voluti razionalizzare e ottimizzare mezzi e risorse umane, ed evitare “crescenti incertezze e di conseguenti conflitti di giurisdizione o di attivazione di contemporanee azioni di fronte al giudice speciale ed al giudice ordinario”. Oltre alla soppressione dei tribunali militari in tempo di pace, si suggeriva di riscrivere in tal modo l’articolo 102: «La giurisdizione è unica e articolata in Sezioni: civili, penali, amministrative e contabili. La funzione giurisdizionale è esercitata dai giudici istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario. Non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali».

Il secondo obiettivo, come leggiamo dalla Relazione introduttiva, consisteva nella separazione delle carriere e nella «riconducibilità, per quanto possibile, nell’ambito del processo democratico delle rilevantissime scelte di politica criminale che, allo stato, sono di fatto delegate, senza trasparenza alcuna, alla non trasparente e non responsabile scelta dei pubblici ministeri». Due temi molto invisi alla magistratura associata che già ha scioperato contro i progetti di modifica, seppur blandi, adottati nella riforma di mediazione Cartabia, che non è di tipo costituzionale però.

Scrivevano Pera e colleghi: «Una ragione diffusamente avvertita è la necessità di garantire, anche nell’immagine, la sicurezza del cittadino circa la imparzialità del giudice, come figura nettamente distinta e terza rispetto ai soggetti inquirenti, non coinvolta nelle strategie accusatorie, né nelle opzioni di politica criminale del pubblico ministero stesso».

Lo stesso messaggio trasmesso nella pdl di iniziativa popolare delle Camere Penali che prende polvere anch’essa nella Commissione. Infine, per quanto concerne l’obbligatorietà dell’azione penale, «mentre negli altri Paesi a consolidata tradizione demo- costituzionale si dà per scontata la natura ineliminabilmente discrezionale dell’azione penale e si pongono perciò in essere meccanismi di tipo dinamico per stimolare, verificare ed eventualmente correggere il suo esercizio, così da assicurare che un potere tanto rilevante, quale quello che fa capo agli organi inquirenti, per la libertà, per la rispettabilità, per la sicurezza del cittadino, nonché per il rispetto della legalità e per l’efficacia delle politiche contro i fenomeni criminali, venga esercitato secondo criteri per quanto possibile uniformi ed uguali per tutti, efficaci ed al tempo stesso rispettosi della dignità umana, nel nostro Paese, negandosi alla radice tale presupposto, si è data una soluzione assolutamente rigida e non soggetta ad alcuna verifica quanto alla sua efficacia operativa di assicurare l’effettiva attuazione generalizzata al principio della obbligatorietà dell’azione penale».

In pratica, denunciavano i proponenti, il sistema ha prodotto col tempo una «rilevanza politica del pubblic o ministero sempre più marcata». Se è vero che l’articolo 112 prevede che «il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale», in realtà, sostenevano i firmatari del ddl, il pm ha acquisito sempre più potere nel decidere quali reati perseguire, dando origine ad «un effettivo ostacolo alla concreta attuazione del principio costituzionale dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, cioè di quel principio che l’obbligatorietà era intesa a tutelare». La soluzione per Pera? «Il ministro della Giustizia, sentiti il Consiglio superiore della magistratura requirente e il ministro dell’Interno, pro e le priorità al fine dell’esercizio dell’azione penale». pone al Parlamento ogni anno i criteri.