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«Mantenere contatti più stretti con i propri cari quando, nelle condizioni di privazione della libertà, si è più a rischio e il sostegno familiare potrebbe evitare azioni dalle conseguenze drammatiche, o poter essere parte attiva e dare sostegno o conforto a un familiare che stia male, potrebbe davvero costituire la prima e più profonda forma di umanizzazione delle carceri». Così scrive la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia in un documento pubblicato sul sito di Ristretti Orizzonti, dove mette sul tappeto alcune proposte utili per abbassare la recidiva ed evitare situazioni drammatiche come i suicidi nelle carceri.
I volontari sottolineano che permettere alle persone detenute di salvare i loro affetti è importante sempre: lo è nella fase iniziale della carcerazione, che è uno dei momenti di particolare fragilità, in cui il rischio suicidi è decisamente alto, lo è poi in quella fase della detenzione in cui la persona detenuta vive nell’attesa di poter accedere ai permessi, e ricostruirsi davvero i legami famigliari e le relazioni sul territorio. Ed è anche un investimento sulla sicurezza, perché solo mantenendo saldi i legami dei detenuti con i loro cari, genitori, figli, coniugi, compagni e compagne, sarà possibile immaginare un reinserimento nella società al termine della pena.
L’esperienza della Conferenza Nazionale Volontariato è confermata anche dallo studio statistico a cura di Daniele Terlizzese e Giovanni Mastrobuoni in “Rehabilitating Rehabilitation: Prison Conditions and Recidivism”, Einaudi Institute for Economics and Finance e Università di Essex ( 2014), sulle cause di riduzione della recidiva nel carcere di Bollate. Lo studio dimostra che la recidiva certamente si abbatte nel caso di detenuti che hanno relazioni familiari. Relazioni che favoriscono anche condizioni di vita più dignitose e che sembrano in sé sufficienti per attivare la riabilitazione.
I volontari confermano quanto sia importante che nel percorso di reinserimento delle persone detenute sono previste tappe importanti come i permessi premio e le misure di comunità, fondamentali proprio per ricostruire prima di tutto i legami famigliari e le relazioni, ma – sottolineano – «è altrettanto vero che prima di accedere a questi, che ancora sono benefici e non diritti, le persone spesso trascorrono anni in carcere e dovrebbero cercare di salvare i loro affetti con sole sei ore di colloqui al mese e dieci minuti di telefonata a settimana ( questo succedeva prima del Covid, e non deve succedere che si torni a quel regime)».
Ma cosa chiedono i volontari? Alcune proposte concrete per rendere il carcere “più umano”, che richiedono un cambiamento della legge attuale, ma che sono fondamentali per la cura degli affetti delle persone detenute. Eccone alcune. La prima consiste nel “liberalizzare” stabilmente le telefonate per tutti i detenuti, come avviene in molti Paesi già oggi, sia per quel che riguarda la durata che i numeri da chiamare. «Telefonare più liberamente ai propri cari – sottolineano i volontari - potrebbe anche costituire un argine all’aggressività determinata dalle condizioni di detenzione e una forma di prevenzione dei suicidi». Altri punti del documento redatto dalla Conferenza Nazionale Volontariato sono quelli volti a consentire i colloqui riservati di almeno 24 ore ogni mese, da trascorrere con la famiglia senza il controllo visivo. Consentire inoltre che i colloqui ordinari siano cumulabili per chi non fa colloquio con i familiari almeno ogni due mesi.
Aumentare le ore dei colloqui ordinari, dalle sei ore attuali, ad almeno dodici ore mensili, per rinsaldare le relazioni, perché alla base del reinserimento nella società c’è prima di tutto il rientro in famiglia. Ampliare la durata dei permessi premio, attualmente previsti in un massimo di 45 giorni annui, in modo da garantire sia l’effettivo avvio del percorso di reinserimento della persona detenuta nella società sia una sua maggiore e più consapevole assunzione di responsabilità, con indubbie ripercussioni positive sulla sicurezza sociale.
Non solo. I volontari chiedono di ampliare la possibilità di usufruire dei permessi di necessità (articolo 30 dell’ordinamento penitenziario) superando l’accezione negativa dell’inciso “evento familiare di particolare gravità”, in particolare, riformulando l’articolo in questione al fine di rendere non occasionali le pronunce della magistratura che già ora non identifica il concetto di gravità solo con riguardo a eventi di carattere luttuoso, o comunque negativo, ma lo associa anche a eventi rilevanti ai fini del percorso di reinserimento della persona detenuta.