Mentre la maggior parte dei mass media, come di consueto, sposava senza esercizio critico la tesi propagandata dai taluni magistrati antimafia sul fatto che
dietro le rivolte carcerarie del 2020 ci fosse una regia occulta volta a proporre una sorta di riedizione della trattativa Stato-mafia, noi de
Il Dubbio lo abbiamo scritto nero su bianco fin da subito che si tratta di una tesi del tutto priva di fondamento. Non ci voleva molto, basterebbe avere una conoscenza a 360 gradi del mondo penitenziario. Finalmente, di recente, a sconfessare definitivamente quella tesi, ci ha pensato la
Commissione ispettiva del Dap, presieduta dall’ex procuratore Sergio Lari, nella relazione finale sulle rivolte.
Il “papello” di Salerno: le richieste dei detenuti sollecitate dal questore
Sono stati sviscerati diversi episodi, compresa la vicenda del
cosiddetto “papello”, definizione ovviamente suggestiva (ed evocativa) di un foglio sottoscritto da una delegazione del carcere di Salerno – il primo penitenziario che ha inscenato la rivolta - su
richiesta del questore per intavolare una mediazione. Nulla di oscuro. Ricordiamo che la Commissione aveva il compito di indagare «sull’origine delle rivolte avvenute negli istituti penitenziari nel marzo 2020, sui comportamenti adottati dagli operatori per ristabilire l’ordine e la sicurezza e su eventuali condotte irregolari o illegittime poste in essere», come indicato nel provvedimento Capo del Dipartimento (pcd) istitutivo. È stata presieduta, come detto, dal magistrato in quiescenza Sergio Lari, ex Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Caltanissetta, coadiuvato da sei operatori penitenziari di lunga esperienza. La relazione è divisa in due parti dove in sostanza ha analizzato tutti gli istituti penitenziari attraversati dalle rivolte, in alcuni fortemente distruttive e relativi decessi che hanno coinvolto 13 detenuti.
“Il Dubbio” ha subito escluso ingerenze della criminalità organizzata
Nell’analisi sull’origine delle rivolte, una delle prime domande che si è posta la Commissione ha riguardato l’eventualità che possa esservi stata la regia della criminalità organizzata e, conseguentemente, su questo tema è stato svolto il necessario approfondimento in occasione di tutte le visite ispettive. Questa ipotesi, infatti, era stata avanzata da alcuni organi di stampa, da qualche Sindacato di Polizia penitenziaria nei primi giorni successivi alle rivolte, ma anche - e questo lo sottolinea
Il Dubbio – da taluni magistrati come Nino Di Matteo o l’ex capo della Procura nazionale antimafia Cafiero de Raho, sul rilievo che la sospensione dei colloqui in presenza avrebbe danneggiato la catena di comunicazioni tra penitenziario e mondo esterno compromettendo gli interessi del crimine organizzato, oltre che sulla considerazione che la contemporaneità degli eventi e le comuni modalità organizzative delle sommosse avrebbero deposto per una “strategia occulta orchestrata a tavolino". Ipotesi, appunto, del tutto priva di fondamento.
A Melfi i reclusi calabresi non hanno aderito, benché sollecitati
La relazione della Commissione, evidenzia che quando si parla di criminalità organizzata non si può restare nel vago e bisogna intendersi a quale delle diverse organizzazioni criminali operanti in Italia si fa riferimento. Stando alle risultanze dell’indagine ispettiva,
si può escludere qualsivoglia ruolo nell’origine delle rivolte della 'ndrangheta sia perché non vi è stata alcuna sommossa in istituti penitenziari calabresi, sia perché non è stato registrato alcun coinvolgimento di detenuti appartenenti a tale organizzazione mafiosa nelle rivolte attuate presso gli altri istituti penitenziari. Prova ne sia, che in occasione della rivolta verificatasi presso la casa circondariale di Melfi, l’unica avvenuta su iniziativa di detenuti di alta sicurezza, i reclusi calabresi presenti in istituto, malgrado le sollecitazioni ricevute, si sono astenuti da qualsivoglia adesione alla rivolta stessa. Altrettanto può affermarsi per quanto riguarda Cosa nostra” che, come è noto, si caratterizza per avere una struttura unitaria e verticistica e considera la Sicilia suo territorio di appartenenza. Ebbene, dall’attività ispettiva è risultato che questa organizzazione mafiosa non soltanto si è completamente disinteressata a tutte le rivolte in esame, ma ha del tutto ignorato anche quelle che si sono verificate tra il 9 e il 10 marzo negli istituti penitenziari siciliani di Trapani, Siracusa e Termini Imerese, benché le prime due si siano caratterizzate per particolare violenza e drammaticità degli eventi. E questa analisi non sorprende Il Dubbio che ha ben evidenziato la peculiarità dei detenuti appartenenti a Cosa nostra, soprattutto se boss.
Anche a Poggioreale si è trattato di detenuti comuni
L’unico caso in cui una rivolta è stata organizzata esclusivamente da detenuti appartenenti al circuito di alta sicurezza, come sottolinea la relazione, è stato quello dell’istituto penitenziario di Melfi. In questa occasione, tuttavia, la rivolta ha coinvolto soltanto una fascia dei detenuti della sezione alta sicurezza di area foggiana, barese e campana che, come è risultato dagli accertamenti ispettivi, sembra abbiano agito autonomamente, in assenza, cioè, di una regia della organizzazione criminale di appartenenza. In un’altra circostanza si è registrata la partecipazione di quattro detenuti di un reparto alta sicurezza alla rivolta organizzata nel carcere di Poggioreale, in data 8 marzo, dai detenuti comuni ivi ristretti. A
nche in questo caso si è trattato di iniziativa - peraltro contestata da altri detenuti di alta sicurezza dello stesso istituto penitenziario - che non è risultata essere stata organizzata o avallata dalla organizzazione criminale di appartenenza.
Lo stesso Nucleo Investigativo Centrale ha confermato: non c’è stata una regia
Emerge, tranne l’eccezione del carcere di Melfi, che in tutti gli istituti penitenziari, hanno avuto come protagonisti delle rivolte, i detenuti comuni - tra cui molti stranieri - con un’alta percentuale di soggetti appartenenti alle fasce deboli della popolazione penitenziaria: per lo più giovani, nullatenenti, affetti da tossicodipendenza o da fragilità psichiche. Neppure da altre fonti sono emersi elementi idonei a supportare l’ipotesi che all’origine - anche di una sola - delle 22 rivolte in esame vi sia stata la regia di un’organizzazione criminale maliosa.
Lo stesso Nucleo Investigativo Centrale (NIC) nelle informative del 20.04.2020 e del 18.08.2021 ha evidenziato come le rivolte siano state poste in essere da detenuti comuni, mentre quelli appartenenti al circuito alta sicurezza, salvo casi sporadici ed isolati, non vi hanno preso parte, rimanendo osservatori neutrali e in alcuni casi, addirittura, esprimendo dissenso o prendendo le distanze dai rivoltosi. Del resto, viene evidenziato nella relazione, tutte le indagini effettuate dal NIC sui telefoni cellulari sequestrati in occasione delle perquisizioni effettuate a ridosso delle rivolte non hanno consentito di trovare riscontro alcuno all’ipotesi che i rivoltosi abbiano ricevuto disposizioni telefoniche da soggetti appartenenti alla criminalità organizzata. Dopo le visite ispettive eseguite carcere per carcere,
è emerso ciò che era già chiaro per chi conosce da tempo le problematiche del mondo penitenziario, dal Garante nazionale delle persone private della libertà alle associazioni: vi erano reali situazioni di disagio personale e collettivo dovute alle condizioni di degrado della vita carceraria che - amplificate dalla paura del contagio da Covid 19 (del tutto concreta visto il sovraffollamento in ambiente chiuso) e dalla notizia della sospensione dei colloqui in presenza - hanno dato il via alle rivolte.