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L’onestà? Ha fatto il suo tempo. L’uno vale uno? Roba del passato. La scatoletta di tonno da aprire? Un ricordo imbarazzante. C’è solo una battagli che vale la pena combattere per il Luigi Di Maio del 2022: la difesa a oltranza di Mario Draghi. Il ministro degli Esteri, di fatto, non è più un iscritto del Movimento 5 Stelle, è diventato un militante convinto del partito del premier. Lo ha capito anche Beppe Grillo, che nel secondo giorno di rissa tra l’enfant prodige della storia pentastellata e Giuseppe Conte ha rotto il silenzio per sostenere implicitamente il secondo. Cuore della questione: il limite dei due mandati, che lascerebbe a casa metà gruppo parlamentare, oltre al volto più noto del Movimento. «Alcuni obiettano - soprattutto fra i gestori che si arroccano nel potere - che un limite alla durata dei mandati non costituisca sempre l’opzione migliore, in quanto imporrebbe di cambiare i gestori anche quando sono in gamba: “cavallo che vince non si cambia” sembrano invocare ebbri di retorica da ottimati», scrive il fondatore sul sacro Blog censurando senza mezzi termini l’iniziativa di Di Maio, che dal canto suo dice polemicamente che i 5S farebbero bene a mantenere la regola aurea, in quanto forza arroccata su posizioni del passato. «Il dilemma» tra continuità dell’azione politica e avvicendamento nella gestione del potere «può essere superato in altri modi», spiega Grillo, «senza per questo privarsi di una regola la cui funzione è di prevenire il rischio di sclerosi del sistema di potere, se non di una sua deriva autoritaria, che è ben maggiore del sacrificio di qualche (vero o sedicente) Grande Uomo». In altre parole: il ministro degli Esteripuò scordarsi una ricandidatura alle Politiche del 2023. Il messaggio perentorio vale per Di Maio ma è rivolto pure a Conte, alleato di percorso del fondatore, ma non per questo nel cuore di Grillo. L’avvocato, infatti, pur volendo liberarsi di gran parte della vecchia guardia, ha bisogno di convincere il “garante” ad accettare almeno cinque deroghe per cinque big a rischio: Paola Taverna, Roberto Fico, Alfonso Bonafede, Vito Crimi e Stefano Buffagni (al primo mandato da parlamentare, ma con un passato da consigliere regionale lombardo). Il comico è convinto che invece nessuno sia davvero indispensabile e il suo monito vale dunque per tutti, Conte compreso. L’ex premier però per il momento registra l’intervento di Grillo come un punto a suo favore e lascia che Di Maio consumi le sue cartucce a vuoto. «Il ministro degli Esteri è un uomo disperato», commentano i contiani, convinti che il giovane leader di Pomigliano d’Arco sia già con più di un piede fuori dal Movimento. E il diretto interessato non fa nulla per nasconderlo. Anzi, ostenta la sua lontananza da un’organizzazione che non dà «prova di maturità politica» quando strumentalizza «il presidente del Consiglio» o si vanta«di aver prodotto il suo viaggio a Kiev», dice il titolare della Farnesina stigmatizzando le parole utilizzate da Conte il giorno prima . «Il viaggio a Kiev del presidente Draghi con Scholtz e Macron è frutto di una grande azione diplomatica del presidente del Consiglio, che ha dato il segnale di un’Ue compatta in solidarietà dell’Ucraina», puntualizza Di Maio, come fosse un dirigente di un partito avverso, prima di riaccendere i riflettori della polemica sulla risoluzione del 21 giugno con la quale i grillini vorrebbero impegnare il governo a limitare l’invio di armi all’Ucraina. «Io credo che dobbiamo fare tutto quello che serve affinché nella risoluzione di maggioranza ci sia il massimo sostegno al presidente del Consiglio», insiste il ministro. «E dobbiamo necessariamente ricordarci che questo è un Paese che ha delle sue alleanze, delle sue dinamiche e dobbiamo continuare a sostenerle per ottenere la pace». Insomma, per Di Maio, Conte resta un irresponsabile che rischia di «disallineare» l’Italia dalle tradizionali alleanze internazionali. E proprio per questo, l’esponente più istituzionale del M5S starebbe preparando le valigie in vista di un viaggio fuori dai confini pentastellati. Il problema è la visione assente, aggiunge con nettezza Di Maio: «Non è chiaro qual è la nostra ricetta per il Paese. Nella cosiddetta coalizione di maggioranza siamo molti partiti: il Pd sale e noi scendiamo, ci sarà un perché. Forse perché non abbiamo ben chiaro quali sono le ricette per le partite Iva, per gli imprenditori, per i lavoratori, per il futuro del nostro Paese a livello internazionalale». Parole che stridono con la storia pentastellata e anche con quella personale del titolare della Farnesina, un tempo capofila della missione transalpina alla ricerca di intese con i gilet gialli. Quell’esperienza, per Di Maio, si è esaurita. Adesso teme «che questa forza politica rischi di diventare una forza politica dell’odio». Al ministro non resta che andare, portando con sé tutti gli scontenti o i trombati potenziali. L’approdo sarà al centro del centrosinistra, in quell’area draghiana per ora composita che non smette di difenderlo e di offrirgli un giaciglio. Sempre che i posti disponibili esistano davvero.