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Partiamo da dove Giovanni Maria Flick concluderà il proprio intervento oggi a Napoli, o meglio al webinar organizzato dagli avvocati napoletani, e dalla loro Associazione Piero Calamandrei, sulle riforme della giustizia. «Dal presidente Mattarella, si deve partire. Non per piaggeria: lui non ne ha bisogno e io non ne sono capace. Ma quel suo discorso a Montecitorio in occasione del reincarico, quella parte dedicata alla giustizia, contiene in sé tutti i principi necessari per scrivere un decalogo della giustizia che sia degno di un Paese civile».
E allora è fatta, presidente Flick: la riforma, a cominciare dalla riforma del Csm, può essere costruita a partire da lì. Cosa manca?
La politica.
La politica attuale non è in grado?
Non lo è ancora. Continua a usare la giustizia come uno strumento per colpire l’avversario. E comunque non mi pare ancora orientata verso l’obiettivo, non ha l’atteggiamento necessario per gestire l’organizzazione e le regole della giustizia, ovviamente senza entrare in alcun modo nella indipendenza dei giudici e nella loro soggezione soltanto alla legge.
Qual è il modo in cui la politica dovrebbe riformare la giustizia?
Forse deve rassegnarsi all’idea di realizzare quegli obiettivi effettivamente alla propria portata. Le serve concretezza, e la rinuncia alla pretesa di una Grande Riforma. E sa perché? Perché le grandi riforme risentono inevitabilmente del peso che viene dal passato. Si accumulano gli errori, li si fa sedimentare, fermentare e poi si pretende di individuare tutte le soluzioni utili a evitare che si ripetano. Ma l’organizzazione della giustizia deve essere regolata dalla politica, dal legislatore attraverso la formulazione delle regole che devono attuare i principi, con la capacità di intervenire progressivamente sulle questioni via via messe sul tavolo dalla realtà. Naturalmente serve anche la forza autorevole di una politica che sappia imporsi.
E vede questa forza nella politica, nel Parlamento di oggi chiamato a riformare la magistratura?
No, non la vedo ancora, non vedo ancora la capacità di ribattere alla pretesa maturata dalla magistratura soprattutto a partire da Mani pulite, vale a dire la pretesa di provvedere lei, la magistratura, a correggere le storture della politica e in generale del Paese, con le sentenze, anzi, semplicemente con le indagini. Non riesco a vedere ancora una politica che sappia opporsi a una simile prospettiva, che è appunto ancora quella di trent’anni fa, e riaffermare il proprio primato nella democrazia. Non vedo una politica in grado di non farsi intimidire da una magistratura che sembra dirle: “Tu non puoi riformare alcunché perché hai troppi scheletri nell’armadio”.
In controluce lei ancora coglie una dialettica del genere?
Colgo da una parte la politica che si arrocca su alcuni dogmi, e una magistratura che sembra ancora dire “non si tocca niente, non vogliamo cambiare niente”. Lo si è visto nei giorni scorsi con il parere del Csm sulla proposta di riforma avanzata dalla ministra Cartabia. È la politica il luogo in cui si costruiscono le scelte per il futuro. Al momento è ancora il luogo in cui ci si illude invece di poter rimediare agli errori del passato, inclusi gli errori della magistratura. D’altra parte due anni di pandemia dovrebbero averci portato suggerimenti proprio in quest’ottica.
Scusi presidente, cosa c’entra la pandemia con la riforma della giustizia?
Pensi se il legislatore, con la pretesa di scolpire per sempre nel marmo la riforma perfetta, l’avesse prodotta prima del covid: in gran parte forse quel lavoro, considerata la rivoluzione a cui abbiamo dovuto adeguarci in tanti campi della vita associata, avremmo dovuto buttarlo di fronte al sorprendente progresso della tecnica. È un modo per ribadire che non servono soltanto le riforme definitive ed epocali, magari a costo zero, ma la capacità di regolare le questioni via via che si presentano, ed è sempre la politica a doverlo fare.
Non le chiedo quali emendamenti al testo Cartabia preferisce, ma solo con quali criteri li sceglierebbe.
Vuole un parametro? È pronto, eccolo: il lavoro della commissione Ruotolo sul carcere. Notevole nella sua concretezza della quotidianità. Non tutti i contributi scientifici raccolti in questi mesi dal governo, nonostante la loro saggezza e profondità, sono sembrati efficaci come la proposta avanzata dalla commissione Ruotolo per migliorare la vita nelle carceri. Concretezza e realismo: lo ha rilevato anche la ministra Cartabia. Si vuole migliorare la vita e le relazioni dei detenuti subito? Intanto incrementiamo il ricorso ai videocolloqui, che durante il covid sono serviti moltissimo. E ricorriamo alla videosorveglianza per poter gestire al meglio la cosiddetta vigilanza dinamica, cioè il regime per cui nei penitenziari le celle restano aperte e i reclusi possono muoversi con maggiore libertà. È una politica che gli agenti contestano perché li tiene troppo in apprensione, ma con le videocamere, usate secondo un ragionevole bilanciamento con il diritto alla privacy e con il controllo di tutto ciò che si svolge in carcere, tutto può essere affrontato forse meglio. A cominciare dai rischi di maltrattamenti, per usare un linguaggio un po’ eufemistico.
Torniamo a Mattarella e al decalogo per una giustizia da Paese civile: vede quel decalogo ancora lontano dall’essere sancito?
Ancora sì. Ancora abbiamo una magistratura che pretende di scrivere la storia, di distinguere il bene da ciò che non lo è, anziché accertare il singolo fatto illecito. Come nasce una simile pretesa? Di fronte alla crisi della politica, la magistratura, da Mani pulite in poi, ha ritenuto di poter dire “solo noi abbiamo espresso figure in grado di mettere in salvo il Paese”. Ci si richiama spesso all’eroismo di Falcone e Borsellino. Ma stiamo molto attenti al discorso, sul quale insisto, pronunciato da Mattarella per il secondo suo incarico e ribadito con il suo discorso di due giorni fa ai neo-magistrati.
Il presidente nel 2015 aveva reso omaggio alla magistratura e ai magistrati che dobbiamo considerare dei martiri e che sono anche altri, come Falcone e Borsellino, ma che sono diventati martiri solo dopo che erano morti. Invece nel febbraio scorso il presidente non ha rinnovato l’omaggio alla magistratura. Ed è inevitabile, perché di martiri non ce ne sono più molti e i problemi sono invece se possibile cresciuti. Per fortuna abbiamo tanti magistrati seri che nel riserbo, nell’abnegazione e con professionalità fanno ammirevolmente il proprio lavoro, ma a mettere in salvo il Paese, lo ripeto ancora una volta, devono essere sempre e comunque le scelte della politica, non le azioni della magistratura.
Cominciamo a superare secondo lei lo schema per cui il processo deve basarsi non tanto sul fatto quanto sul suo presunto autore?
Cominciamo a comprendere gradualmente che le esigenze della sicurezza non possono schiacciare l’individuo e i suoi diritti, né le garanzie che nel processo dobbiamo riconoscergli. E che il singolo processo penale non serve a reprimere un fenomeno, ma ad accertare la responsabilità dell’individuo in relazione ad uno specifico fatto di reato. Anche se l’individuo è ora messo in pericolo dalla semplificazione manichea proposta dai social, dalle grandi piattaforme, che hanno tutto l’interesse a orientare le persone verso una lettura banalizzante e dicotomica del reale, per manipolarne le scelte anche in termini di mercato, oltre che politici.
I partiti tendono ancora a usare la giustizia come una clava per colpire l’avversario?
Lo si vede anche nello scontro tuttora in corso sulla riforma del Csm. La volontà di strumentalizzare la giustizia ora si nasconde nei conflitti sui dettagli tecnici. Non si è ancora sradicata, quella tentazione. Lo si vede anche dall’uso mediatico che si continua a fare del processo.
Però va detto che proprio sul rapporto fra processo e media si sono fatti dei passi avanti con le norme sulla presunzione d’innocenza.
Farei notare che norme del genere in gran parte esistevano già dal 2006, e che non sono state mai prese sul serio. Comunque, della proposta di inserire, nella riforma del Csm, un illecito disciplinare collegato alle nuove norme su media e indagini, conforta l’esclusione dell’ipotesi di sanzioni penali e, appunto, il riferimento all’ambito disciplinare, assai più appropriato. Sarebbe ancora meglio se le condotte che chiamano in causa i principi costituzionali di imparzialità e trasparenza fossero valutate al di fuori delle pastoie che anche il sistema disciplinare inevitabilmente genera, vale a dire sul piano deontologico.
E qui entra in gioco l’Anm, che deve anche vigilare sul rispetto della deontologia da parte dei magistrati.
L’associazionismo è un valore costituzionale, e va sempre garantito e preservato. Mette insieme le diversità per orientarle allo sforzo di perseguire il bene comune attraverso la partecipazione e l’apporto delle diversità alla vita sociale. Una strada per ritrovare valori in grado di sorreggere e dare senso alla stessa democrazia. Ma è chiaro che se il giudice ha nelle mani la libertà delle persone, deve anche accettare dei limiti in grado di affermare la sua imparzialità e la percepibilità di quest’ultima da parte dei destinatari dei suoi provvedimenti. Se il magistrato invece pretende non tanto di accertare i fatti quanto di riscrivere la storia, è meglio se fa un altro mestiere.
E invece i magistrati non tollerano di poter essere giudicati dagli avvocati.
Gli avvocati sono chiamati a tutelare gli utenti della giustizia, a rappresentarli: ci mancherebbe che non possano dire cosa pensano di un giudice e che il loro pensiero non debba essere rilevante. Trovo quasi offensivo che, anche al di là delle intenzioni, si accusino gli avvocati di non saper essere imparziali, di essere ontologicamente portati a servirsi del giudizio sui magistrati nei Consigli giudiziari in modo da consumare vendette. È offensivo e attenzione, l’idea della malafede del giudizio piegato alla vendetta è una proiezione con cui si rischia di attribuire ad altri un vizio coltivato dentro se stessi. D’altra parte a volte anche l’avvocato che ricusa il giudice proietta all’esterno una parzialità che forse coltiva, inevitabilmente, nel proprio intimo.
Aggiungo ancora un aspetto: quando si prova a compensare i pregiudizi nei confronti dell’avvocato con un vagheggiato suo riconoscimento costituzionale, si dimentica che l’avvocato in Costituzione c’è già. Non solo all’articolo 24, nel diritto alla difesa, ma anche come componente necessario nel Csm. E qui mi permetto di dire che la lezione dei padri costituenti consiste nel reclamare il contributo all’autogoverno della magistratura da parte di figure dotate di saggezza giuridica e umana. Quali appunto si presume siano gli avvocati patrocinanti con una particolare anzianità e i professori di diritto con una cetra esperienza. Se avesse voluto attribuire, ai laici del Csm, una connotazione politica, l’assemblea costituente lo avrebbe scritto. No: vuole avvocati in grado di governare l’ordine giudiziario insieme con i magistrati.
Mi pare strano pensare di vietare ai giudici il rientro nella giurisdizione dopo un’esperienza politica e pensare invece che i politici possano passare direttamente al Csm e poi magari tornare di nuovo in Parlamento. La proposta di bloccare anche la seconda delle due porte girevoli non mi pare tanto insensata. Sarà eventualmente la Corte costituzionale a decidere se è illegittima, ma a me sembra rispettosa di un principio. Di sicuro noi non possiamo pretendere da una riforma che risolva d’un colpo tutti i problemi della giustizia. L’ho detto all’inizio e lo ripeto: si deve costruire la giustizia anche con regolazioni progressive. L’importante è riconoscersi attorno ad alcuni principi immodificabili, come ha chiesto ancora una volta il presidente Mattarella nel messaggio del 3 febbraio e nel benvenuto di due giorni fa ai giovani magistrati. E quei principi sono nient’altro che la Costituzione.