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Marco Pannella
Ha sempre tenuto in somma considerazione, le tre virtù teologali: fede, speranza, carità; e le quattro cardinali: prudenza, giustizia, fortezza, temperanza, considerandoli valori universali. Forse proprio per questo, era rispettoso dei credenti e al tempo stesso anticlericale senza concessioni. La prudenza, in particolare: Marco Pannella, guascone, avventurista, spericolato, provocatore, avventato, e quant’altro, al contrario si è sempre mosso con prudenza. Non con “calcolo”, inteso come interesse; piuttosto la sua era l’attenzione del giocatore di scacchi, consapevole che una volta mossa la prima pedina, si deve subito prevedere come reagirà l’avversario, parare e anticipare le sue, di mosse; e sfruttare le “distrazioni”, gli “errori”: i “varchi”. Se una cosa aborriva era la “testimonianza”, il gesto per il gesto; fissava degli obiettivi e li perseguiva con metodo. Le sette virtù, appunto.
Si ricorderà quel suo lungo e penoso sciopero della fame e della sete, dove giunge a bere, davanti alle telecamere, la sua urina, “il prodotto del suo corpo”, così da guadagnare le ore necessarie per raggiungere l’obiettivo prefissato. Prudentemente quell’urina è stata “prodotta” prima di cominciare l’azione nonviolenta, nella previsione di essere costretto a ricorrere a quell’estrema mossa. In altra occasione alcuni compagni decidono di intraprendere anche loro uno sciopero della sete. Non nasconde la sua preoccupazione, impone che il gruppo dei digiunatori stazioni in permanenza nella sede del Partito Radicale, “per non perderli d’occhio”, vuole che oltre al costante controllo medico, l’azione non si prolunghi oltre le 48 ore. Pannella dunque, misura e calcola le sue forze, le risorse, fino a quando ci si può spingere; quando è opportuno fare una concessione, e un passo indietro.
Molti ricordano ora ricordano quando, dopo settimane di digiuno, una quantità di interrogazioni parlamentari, assieme all’allora segretario del Partito Radicale Olivier Dupuis trascorre il capodanno nelle trincee di Osijek con indosso la divisa dell’esercito croato; ma allora era silenziata la sua voce, il suo invocare che la politica aggressiva e assassina di Slobodan Milosevic fosse fermata a ogni costo. Oggi il contesto è differente. Non c’è una pubblica opinione apatica, tecnicamente ignorante. Oggi si assiste a una reazione decisa e ammirevolmente compatta, sia pure tardiva, alla guerra sanguinosa scatenata da Putin e dalla sua cricca di tagliagole. Ha dunque senso accorrere a Kijv, da inerti più che da inermi, e offrirsi quali “scudi umani”? Si può pensare che al Cremlino, impegnati come sono in una guerra di terrore che non risparmia bambini, disabili, anziani, donne, si facciano scrupolo di occidentali accorsi generosamente per interporsi tra i combattenti? Si auspica che possano essere a migliaia a marciare per la pace. E quelle migliaia, ove tali diventassero, con quale “prudenza” verrebbero convogliate, e ammassate in quelle zone? Non è una scampagnata di fine settimana; è come scalare l’Everest con scarpe da ginnastica. Se “qualcosa” accade, poi?
Certo: sono accorsi per qualche ora i leader di Polonia, Repubblica Ceca e Slovenia. Il primo ministro ceco Petr Fiala, il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki, il vice primo ministro polacco Jaroslaw Kaczynski e il primo ministro sloveno Janez Janša si sono incontrati con il presidente Volodymyr Zelensky, in rappresentanza del Consiglio Europeo; ma è stata una missione politica, non solo visita di solidarietà: rischiosa, ma non arrischiata; preparata, con la stessa prudenza che animava Pannella: senza andare allo sbaraglio, senza mandare allo sbaraglio persone animate indubbiamente da ottime intenzioni ma che in questo modo rischiano tuttavia di produrre più danni di benefici.
Generosa la parola d’ordine: “Tutti in Ucraina, usiamo i nostri corpi per fermare le bombe”; ma è da irresponsabili il voler portare, come si annuncia e promette, migliaia di persone a Kjiv. Bene fa la Farnesina a ricordare che in Ucraina è in corso una guerra senza quartiere, che c’è il concreto rischio non solo di diventare possibili obiettivi, ma anche, letteralmente, ostaggi. È questo che ci chiedono gli ucraini? Se si vuole visivamente e fisicamente portare solidarietà al popolo ucraino, forse è meglio organizzare manifestazioni a Mosca e nelle altre città russe (senza prima annunciarle), e unirsi ai tanti che in queste ore sfidano coraggiosamente la dittatura e dicono il loro NO alla guerra scatenata da Putin: a fianco di Marina Ovsyannikova, la giornalista della televisione di Stato russa che si ribella e riesce a mostrare in diretta, durante l’edizione serale del telegiornale più seguito, un cartello con scritto: «No» alla guerra in inglese; e in russo: "Non credete alla propaganda, qui vi stanno mentendo"; di Anna Nemzer, la giornalista russa che dichiara pubblicamente: "Dovevamo capire che Putin è un assassino. Adesso però ribelliamoci"; di Svetlana Gannushkina, 80 anni, leader del Comitato di assistenza civica, da anni impegnata per l’affermazione dei diritti umani; più volte candidata al premio Nobel per la pace, manifesta contro la guerra in Ucraina, e viene fermata vicino alla stazione della metro Teatralnaya, al centro di Mosca. Rilasciata, torna a manifestare; nuovamente fermata; di Elena Chernenko, corrispondente di “Kommersant”, organizza una lettera aperta contro la guerra in Ucraina. "Non c'è alcuna giustificazione per la guerra… le azioni militari… non risolvono e non hanno mai risolto i problemi”, si legge nel testo, firmato da 200 giornalisti. Il comportamento della Chernenko viene definito dalle autorità moscovite “non professionale” e le viene impedito di lavorare; di Elena Kovalskaya, direttrice del Teatro statale e Centro Culturale Vsevolod Meyerhold di Mosca: si dimette dagli incarichi per protesta contro l’invasione dell’Ucraina. Definisce Putin un assassino: “È impossibile lavorare per lui e da lui riscuotere uno stipendio…”.