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Marta Cartabia sfida i giustizialisti con la nomina di Renoldi
Marta Cartabia ha compiuto una scelta. Non irrilevante, tutt’altro che causale. Ha individuato come futuro capo del Dap un giudice che proviene dalla magistratura di sorveglianza, Carlo Renoldi. L’attuale consigliere di Cassazione, in servizio alla prima sezione penale, vanta infatti nella propria vicenda professionale l’esperienza impegnativa e a volte dolorosa della giurisdizione sui diritti di chi è recluso. Ha scatenato, la ministra, una tempesta di reazioni contrarie trasversali. Tutte hanno un punto in comune, nonostante siano espresse da settori così diversi e distanti del panorama politico: additano Renoldi come troppo garantista. Lo è al punto da aver espresso, dicono, posizioni tropo solidali con la condizione dei detenuti, e a volte critiche nei confronti dell’operato degli agenti. Ma visto che un curriculum del genere non è immediatamente spacciabile come una colpa, alcuni, per esempio l’ex sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone, deputato della Lega, aggiungono: viene dalle file di Magistratura democratica, è un giudice di sinistra, ideologizzato. Si prova a dire che, insomma, Cartabia si sarebbe sbilanciata politicamente. Non una scelta sui diritti, ma sul colore delle bandierine. Non sembra una critica solida. Innanzitutto perché mette insieme forze politiche e voci troppo distanti tra loro per non far pensare che invece la vera colpa di Renoldi sia proprio la vicinanza ai diritti dei reclusi. Il Movimento 5 Stelle, per esempio, che non esattamente un partito di destra, si trova su una linea simile a quella di Morrone, e ieri ha inondato le agenzie con comunicati addirittura di allarme per la scelta di un magistrato cosi favorevole alle garanzie. Poi pero il capogruppo di FI in commissione Giustizia alla Camera Pierantonio Zanettin, che viceversa difficilmente può essere confuso con un nostalgico della Terza Internazionale, plaude alla scelta della guardasigilli, così come fa il Pd compatto. E allora: c’è qualcosa che non va? No semplicemente stavolta si è aperta una faglia trasversale nella politica giudiziaria. Una frattura che attraversa il campo da destra e sinistra e divide chi è più attento alle garanzie e ai diritti e chi invece pensa che, in fatto di carcere, vengano sempre e comunque prima il rigore, la restrizione, il controllo, poi il resto. Cartabia ha fatto una scelta chiara. Si è schierata. Renoldi, ricordiamolo, non è ancora destinatario di una nomina, per lui è stata solo chiesta al Csm l’autorizzazione al collocamento fuori ruolo. Ma sin da ora si può dire che siamo davanti a una di quelle scelte destinate a lasciare un segno, a restare, anche dopo che il governo e la guardasigilli avranno concluso il loro mandato. La ministra fa capire che su una cosa intende orientare il futuro della giustizia anche al di là della propria personale presenza a via Arenula: si tratta del carcere appunto, della possibilità che il nostro Paese lo organizzi e concepisca secondo principi di umanità, sull’esigenza di uscire da quella che i radicali definiscono illegalità conclamata. In altre parole, un sistema penitenziario rispettoso della Costituzione. Una sfida difficile. Che, come le note delle ultime 48 ore lasciano intendere, dovrà fare i conti con molti avversari. Ma vale la pena scatenare qualche attrito. Il diritto alla speranza e alla dignità di molte migliaia di persone chiuse in un cella ha già ceduto troppe volte il passo alla politica degli slogan.