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«Il viso di mio padre il giorno in cui è morto era sereno, quasi sorridente. Era il viso di un uomo libero». Il ricordo di quel 20 luglio 1993 è ancora vivo. Stefano Cagliari, figlio di Gabriele, il presidente di Eni morto suicida a San Vittore dopo 134 giorni di carcere, non nasconde la difficoltà di parlarne, a quasi 30 anni di distanza. Anni in cui poco o nulla è cambiato: il carcere è atroce quasi quanto allora, la magistratura è diventata ancora più potente, la politica si è ridotta a «marketing», racconta al Dubbio. E tutto ciò è uno dei frutti avvelenati di Mani Pulite, l’inchiesta che rivoluzionò la storia d’Italia e ne segnò il destino. Gabriele Cagliari di quella storia ne è parte, anche se ha deciso autonomamente che ruolo interpretare: di certo non quello, come scrisse in una lettera, del capro espiatorio «della tragedia nazionale generata da questa rivoluzione». I pm, infatti, parlavano proprio di questo, di una rivoluzione, convinti com’erano della missione moralizzatrice che si erano intestati. «Dicevano: la rivoluzione francese durerà 7 anni, siamo solo all’inizio - racconta oggi il figlio Stefano -. Certamente questo è uno degli elementi preponderanti di tutta quella operazione». Cagliari, nominato presidente nel 1989, fu coinvolto nell’inchiesta sulle tangenti nel 1993 e venne arrestato nella notte tra l’8 e il 9 marzo. «Era un manager di altissimo livello che era stato proposto per la presidenza dal Psi - spiega il figlio - e portò avanti delle politiche industriali molto innovative. Mio padre era stato un uomo di Mattei ed aveva una prospettiva internazionale che nessun altro presidente ha avuto, fino agli ultimissimi tempi. E aveva rilanciato le aziende a livello internazionale». Insomma, un uomo innovativo, che ad un certo punto «si adeguò al sistema delle tangenti, perché era inevitabile e questo ha fatto sì che venisse coinvolto nelle inchieste». A firmare l’ordine di custodia cautelare fu il gip Italo Ghitti, su richiesta del pool, che lo accusava di aver autorizzato il pagamento di tangenti per fare aggiudicare, da parte di Enel, una commessa alla Nuovo Pignone, società del gruppo Eni. Ma non fu l’unico. Ne arrivarono altri due, uno per falso in bilancio, il 27 aprile, l’altro su richiesta del pm Fabio De Pasquale, il 26 maggio, per la presunta tangente pagata dal gruppo Ligresti al Psi per un contratto tra l'Eni e la Sai. Per le prime due accuse, i giudici, a giugno, optarono per la scarcerazione. Ma Cagliari, che non si sottrasse al confronto coi magistrati, ai quali raccontò il sistema delle tangenti, era ancora in carcere per la terza accusa. «La criminalizzazione di comportamenti che sono stati di tutti, degli stessi magistrati, anche a Milano, ha messo fuori gioco soltanto alcuni di noi, abbandonandoci alla gogna e al rancore dell’opinione pubblica. La mano pesante, squilibrata e ingiusta dei giudici ha fatto il resto», scriveva il 3 luglio, in una lettera che rappresenta il suo testamento politico nonché uno spaccato tremendo sullo stato delle carceri e sull’azione della magistratura. Il vero obiettivo dei pm era Craxi. E Cagliari non si rassegnava all’idea di coinvolgere altre persone, nemmeno se ciò avesse potuto aiutarlo processualmente. Ma dopo le dichiarazioni di Salvatore Ligresti, chiese di essere sentito: era il 15 luglio. «Venne interrogato dal dottor De Pasquale - racconta Stefano Cagliari -, che alla fine dell’interrogatorio, con un’espressione molto volgare, gli disse che lo avrebbe mandato ai domiciliari. Il giorno dopo venne sentito dal dottor Greco su Enimont, anche se lui non era ancora stato inquisito per quello, e spiegò cos’era avvenuto col pagamento della maxitangente del gruppo Ferruzzi verso i partiti. Tutto sembrava suggerire che presto sarebbe tornato a casa. Ma il 16 luglio De Pasquale cambiò idea, dando al gip Grigo, che si sarebbe dovuto esprimere entro cinque giorni, un parere negativo al trasferimento ai domiciliari. Mio padre lo venne a sapere probabilmente il 19 e la mattina del 20 si uccise». Per togliersi la vita, Cagliari decise di infilare la testa in un sacchetto di plastica, legato al collo con un laccio da scarpe. E la sua lettera ai familiari rappresentò un violento j’accuse alla magistratura, che ebbe il merito di aprire un dibattito sull’uso eccessivo della custodia cautelare. «Secondo questi magistrati, a ognuno di noi deve dunque essere precluso ogni futuro, quindi la vita, anche in quello che loro chiamano il nostro "ambiente" - si legge nella lettera -. Già molti sostengono, infatti, che agli inquisiti come me dovrà essere interdetta ogni possibilità di lavoro non solo nell'Amministrazione Pubblica o parapubblica, ma anche nelle Amministrazioni delle aziende private, come si fa a volte per i falliti. Si vuole insomma creare una massa di morti civili, disperati e perseguitati, proprio come sta facendo l'altro complice infame della Magistratura che è il sistema carcerario. La convinzione che mi sono fatto è che i Magistrati considerano il carcere nient'altro che uno strumento di lavoro, di tortura psicologica, dove le pratiche possono venire a maturazione, o ammuffire, indifferentemente, anche se si tratta della pelle della gente. Il carcere non è altro che un serraglio per animali senza teste né anima. (...) Siamo cani in un canile dal quale ogni Procuratore può prelevarci per fare la propria esercitazione (...) Stanno distruggendo le basi di fondo e la stessa cultura del diritto, stanno percorrendo irrevocabilmente la strada che porta al loro Stato autoritario, al loro regime della totale asocialità. Io non ci voglio essere». La motivazione ufficiale per negare i domiciliari a Cagliari fu il pericolo di inquinamento delle prove. Nell’interrogatorio del 16 luglio con un altro imputato nell’inchiesta EniSai, infatti, «De Pasquale ebbe la sensazione che questa persona, un amico di mio padre che incontrava nell’ora d’aria, stesse cambiando l’atteggiamento verso l’inchiesta. Secondo De Pasquale, mio padre inquinava le prove. Ma le inquinava stando in carcere, non stando a casa, quindi la motivazione è totalmente inconsistente». Il ministero inviò gli ispettori a Milano, ma per De Pasquale e per il gip non ci fu alcun tipo di sanzione disciplinare. Quando si recò a San Vittore, Bruna, moglie di Gabriele Cagliari, si rivolse ai magistrati dicendo loro «me l’avete ammazzato». Poi, una volta a casa, l’apertura di quella lettera, che era rimasta sigillata in una busta, con la raccomandazione «da aprirsi al mio ritorno». «Ricordo che telefonò Craxi - racconta ancora il figlio - e non riuscì a dire nulla, ebbe solo una crisi di pianto. E tutti questi momenti sono ancora vivi nella memoria». Oggi, a distanza di 30 anni, le macerie sono ancora tutte lì. «La magistratura è andata oltre quelli che erano i suoi compiti istituzionali, diventando tanto potente da cominciare ad avere lotte interne, come succede a qualsiasi potere quando supera il limite». E la politica «non si è mai più rialzata, perché non c’è più un collegamento forte con il Paese e i cittadini. È più marketing, creazione di consensi, ma non capacità di incidere». Insomma, «Mani Pulite per me è stato un disastro. Ha distrutto non solo una classe politica, che comunque ormai era sul viale del tramonto, ma per arrivare a questa classe politica sfruttò la vita di decine di imprenditori che si erano adeguati al sistema per lavorare, lasciando un Paese senza una guida e in mezzo alle macerie». Di Cagliari rimangono le sue lettere (che si possono consultare sul sito www.gabrielecagliari.it), «patrimonio storico assolutamente unico», poi riportate nel libro “Storia di mio padre”, scritto da Stefano Cagliari e pubblicato nel 2018. Lettere che raccontano la parabola umana dell’ex presidente Eni in carcere: «All’inizio gli sembrava fosse comunque necessaria la carcerazione, che comunque lui qualcosa dovesse pagarla - conclude il figlio -. Alla fine, invece, si scaglia contro l’inchiesta, si scaglia contro il sistema carcerario, e quindi lettera per lettera si vede come la sua visione di cosa stava accadendo è cambiata. La cosa straordinaria è la capacità che mio padre ebbe di vedere lontanissimo quello che poi sarebbe successo nel Paese».