Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha ufficialmente chiuso la
procedura di supervisione sull’attuazione della sentenza Khlaifia c. Italia della Corte europea dei diritti umani.
Deluse le associazioni Asgi, A Buon Diritto e Cild, le quali ritengono che la decisione del Comitato dei Ministri sia in contrasto con la tutela dei diritti delle persone che dal 2011 ad oggi sono transitate negli hotspot italiani e invitano la società civile a non abbassare la guardia. La notizia di tale decisione l’ha resa nota l’associazione per gli studi Giuridici sull’immigrazione (Asgi), ripercorrendo tutta la vicenda.
La Cedu aveva riscontrato gravi violazioni da parte dell'Italia
Tutto parte dalla sentenza del 15 dicembre 2016. La Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel caso Khlaifia c. Italia, ha riscontrato la violazione da parte dell’Italia dell’art. 5 Cedu, commi 1, 2 e 4
in relazione al trattenimento privo di base legale e di garanzie di tre cittadini tunisini trattenuti nel 2011, dapprima presso il Centro di soccorso e prima accoglienza (Cspa) di Contrada Imbriacola (oggi hotspot) a Lampedusa, e poi a bordo delle navi Vincent e Audacia. Inoltre riscontrava la violazione dell’art. 13 Cedu, con riferimento all’art. 3 Cedu, in ragione dell’assenza di una procedura per poter presentare doglianze relative alle condizioni del trattenimento. L’Asgi sottolinea che si tratta di una sentenza tristemente ancora attuale, ricordando che ancora oggi
non è prevista una convalida davanti ad un giudice per il trattenimento in hotspot e che non esistono rimedi giurisdizionali specifici – contrariamente a quanto avviene per chi è detenuto in carcere – per poter contestare le condizioni di vita in tali centri.
Il tragico esempio della morte di Wissem Abdel Latif
Per capire l’attualità della sentenza Khlaifia c. Italia, l’associazione fa
il tragico esempio della morte di Wissem Abdel Latif, prima trattenuto all’interno dell’ hotspot di Lampedusa in assenza di informativa legale e nell’impossibilità di presentare richiesta di protezione internazionale, in una condizione di fortissimo isolamento, poi trasferito su una nave “quarantena” fino al trattenimento nel Cpr, funzionale all’allontanamento, senza soluzione di continuità. Questa volta le conseguenze sono state ancora più drammatiche, rispetto alle testimonianze raccolte negli anni dalle organizzazioni della società civile su questo tipo di procedure, che comportano illegittimi allontanamenti dal territorio e negazione del diritto alla libertà di movimento.
Wissem è, infatti, morto in stato di contenzione, dopo più di un mese di illegittimo trattenimento, proprio mentre il Giudice di pace di Siracusa annullava il decreto di respingimento emesso nei suoi confronti alla luce del mancato accesso all’esercizio del diritto di asilo in frontiera.
Il monito all'Italia del Comitato dei Ministri
Dunque, la totale assenza di diritti e garanzie negli hotspot è ancora attuale, ma nonostante ciò il Consiglio d’Europa, nella riunione dello scorso 2 dicembre ha deciso la chiusura della procedura di esecuzione della sentenza Khlaifia c. Italia. Seppur mantenendo il monito nei confronti delle autorità italiane a tenere in adeguata considerazione le preoccupazioni espresse dalla società civile,
il Comitato dei Ministri ha sottolineato l’importanza di un continuo dialogo con quest’ultima e con il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, affinché si adottino tutte le misure necessarie per garantire una rigorosa e coerente applicazione del nuovo quadro giuridico. «Con questo risultato, a cinque anni dalla condanna della Corte EDU, si avalla l’applicazione dell’approccio hotspot caratterizzato dalla privazione indebita della libertà personale, funzionale a impedire anche l’accesso alla richiesta di protezione internazionale. Questa posizione del Comitato desta forti preoccupazioni alla luce del fatto che lo Stato italiano continua a non prevedere diritti e garanzie nel sistema hotspot, come puntualmente denunciato dalla società civile», denuncia con forza l’Asgi. Il rischio è il “non detto”. Quello che il Comitato non dice ma sembra lasciare intendere è che, su questo argomento, ormai tutto è sostanzialmente lecito. «
Bisogna quindi continuare a raccogliere le testimonianze delle persone migranti, a denunciare le condizioni del trattenimento per pretendere un superamento della detenzione amministrativa e, nelle more, avere garanzie per chi è detenuto in hotspot, in Cpr e negli altri luoghi della detenzione amministrativa almeno pari a quelle previste per la detenzione in carcere», conclude l’Asgi.