Accanto al suo nome, persino
dopo l’assoluzione, si legge ancora, da qualche parte, la definizione “
infermiera killer”. Un’etichetta capace di sopravvivere perfino alla sentenza secondo cui
Fausta Bonino, la 60enne ex infermiera del reparto di rianimazione dell’ospedale Villamarina di Piombino (Livorno), «non ha commesso il fatto». La donna, nel 2016, è finita in un vero e proprio incubo: dopo 35 anni di onorata carriera è stata arrestata con l’accusa di aver ucciso 10 pazienti del suo reparto. L’ipotesi della procura era pesantissima: omicidio volontario continuato, con l’aggravante della crudeltà e della violazione dei doveri inerenti ad un servizio pubblico. Dietro le spalle degli inquirenti, nel corso della conferenza stampa, campeggiava la scritta “killer in corsia”. Il tutto da ricollegare «verosimilmente allo stato psichico dell’infermiera, in particolare a depressione, uso di alcol e di psicofarmaci». Insomma, racconta oggi al
Dubbio, «mi avevano definita pazza». Tutto ciò, dopo poco tempo, si dissolse nel nulla. Ma Bonino, per sei lunghi anni, è rimasta chiusa in casa, marchiata a fuoco da un’accusa che, in primo grado, le è costata un ergastolo per quattro decessi sospetti. Oggi tutto è stato ribaltato: Fausta Bonino, dicono i giudici, è innocente. «Dopo l’arresto volevo farla finita: era un incubo - ci ha raccontato -. Ora, invece, credo di nuovo nella giustizia».
Come ha vissuto la lettura della sentenza?
Il giudice ha letto tutto talmente velocemente che non ero riuscita a sentire la parola “assolve” ed ero convinta che mi avessero di nuovo condannata. Ero nervosissima. Alla lettura della sentenza del processo di primo grado, invece, ci ero andata tranquilla: sapevo di essere innocente e quindi ero convinta che non ci fosse assolutamente nulla e che non potessero in alcun modo condannarmi sulla base di quel nulla. Ma non andò come mi aspettavo. Così, questa volta, ero spaventatissima, anche se poi è andato tutto bene. Solo che non riesco ancora a realizzare: dopo sei anni così faccio ancora fatica a capire se sia vero o meno.
Come sono stati questi sei anni?
Non uscivo più di casa. Ho lavorato vent’anni e ho sempre seguito i miei pazienti per tutto il percorso con amore. Loro mi riconoscevano per strada, mi consideravano un’amica… Non avrei mai potuto fare una cosa del genere. Poi ho una passione enorme per il mio lavoro: mio figlio ha fatto l’anestesista proprio per l’amore che gli ho trasmesso io. Lavora a Firenze e lunedì ha preso un giorno dal lavoro per stare vicino a me durante la lettura della sentenza. Era sicuro che sarebbe andata bene.
Com'è stato il momento dell’arresto?
Un trauma enorme. Sono stata arrestata in aeroporto e solo dopo ore, quando mi trovavo al comando, mi è stato detto quale fosse il motivo. Eravamo increduli. Ho chiamato il primo avvocato disponibile e ho cercato di capire cosa stesse accadendo. Hanno perquisito casa mia e mi hanno allontanata da mio marito, senza farmelo più vedere per giorni. Non so come io abbia fatto a superare questa cosa. Il giorno dopo, quando vidi l’avvocata, le dissi che volevo farla finita. Mi sembrava un incubo quanto stava accadendo: ero su tutti i giornali. Ma lei mi disse che se mi fossi ammazzata sarei rimasta colpevole. Mi ha detto che avrei dovuto dimostrare la mia innocenza, perché se fossi morta tutto sarebbe rimasto così come cristallizzato dalle indagini. E per tutti sarei stata per sempre l’infermiera killer. Ho rivisto mio marito e i miei figli dopo due o tre giorni e quando ho visto in che condizioni erano forse ho trovato la forza di andare avanti, per non dar loro un dispiacere. Mi hanno incoraggiata. I miei figli mi hanno detto: “Mamma, sappiamo che non hai fatto nulla”. Sapevo anche io di non aver fatto nulla e speravo che la verità, prima o poi, venisse fuori. Invece ci sono voluti sei anni.
Non le è stato risparmiato nulla.
Non ho capito come sia stato possibile, il giorno dopo, trovare tutte quelle cose sui giornali. Non avevo mai avuto nessun problema al lavoro, nessuno scatto d’ira con i colleghi o cose simili. Invece dappertutto si parlava di me come di una folle: è stato scritto di tutto e di più.
Erano informazioni contenute nell’ordinanza di custodia cautelare?
Durante la conferenza stampa dei Nas, di cui ho la registrazione, si disse che avevano catturato un’omicida, molto probabilmente matta, che ce l’aveva con l’ospedale… Insomma, su molti giornali mi si descriveva come una pazza.
Una diagnosi, non un’indagine.
Hanno fatto quello che volevano.
Come sono stati quei 21 giorni in carcere?
Sono passati, per fortuna, ma li ho vissuti malissimo. Non saprei come altro definire quei momenti. Tagliata fuori dalla famiglia, dal mondo.
Perché si è ritrovata in una situazione del genere, secondo lei?
Il problema è che hanno indagato solo su di me, a senso unico, scartando tutte le altre possibilità. Non so dire perché, ma è andata così. In conferenza stampa hanno parlato di una serial killer, ma c’erano un sacco di errori medici e di problemi da prendere in considerazione: tutto, invece, è stato scartato, tutto è stato messo da parte. Ed io non potevo dire nulla, perché mi trovavo in quelle condizioni. Non conosco i motivi, ma spero, una volta che tutto sarà finito, di capire come sia stato possibile.
Quella definizione cos’ha significato per lei?
L’ho vissuta male. Mi sono chiusa in casa, cercavo di non uscire: avevo paura della gente. Andavo solo a trovare i miei figli, uno dei quali vive a Parigi, l’altro a Firenze. Ma devo dire che tutte le persone che mi conoscevano non hanno mai creduto a queste accuse. Ho ricevuto telefonate anche da persone con le quali ho frequentato il corso da infermiera e che non sentivo da anni. I commenti cattivi sono arrivati invece da chi non conoscevo, specie sui social: non si risparmiavano. Il mio avvocato mi riferiva tutto. Mi ha fatto dispiacere ed anche per questo ho evitato di seguire tutto quello che si diceva.
Teme che la sentenza possa essere annullata?
No, ora ho molta fiducia.
Lei ha perso il lavoro a questa vicenda: cosa farà ora?
Ne parlerò con il mio avvocato nei prossimi giorni. Non ci ho ancora pensato: devo ancora realizzare.