“Ci lasciavano in mutande per giorni nelle celle lisce, con qualsiasi condizione climatica. I vestiti venivano portati in magazzino e per poterli riavere dovevamo continuare a subire ingiurie e umiliazioni”. Un altro racconta che “dormiva con il materasso per terra e metteva la branda davanti alla porta a mo' di protezione per paura che le guardie entrassero durante la notte per picchiarlo; la vita nel reparto di isolamento di San Gimignano era terribile, un andirivieni continuo di squadrette che si presentavano ad ogni minima richiesta o azione pacifica che facevamo (battitura) per attirare l'attenzione quando avevamo bisogno di qualcosa visto che in isolamento non si ha quasi niente. Arrivavano quasi sempre in branco e terrorizzavano, umiliavano e qualche volta picchiavano tutti”.
L'associazione Yairaiha Onlus si è costituita parte civile
Sono le testimonianze dei detenuti durante l’udienza di venerdì scorso. Parliamo del
processo sul caso delle torture al carcere di Ranza a San Gimignano ai danni di un recluso di nazionalità tunisina. Fatti che risalgono nell’ottobre del 2018. Il processo si svolge a porte chiuse ed è interdetto l'accesso alla stampa. Ma grazie alle avvocate Simonetta Crisci e Caterina Calia, legali dell’associazione Yairaiha Onlus costituitasi parte civile, possiamo conoscere le testimonianze dei detenuti i quali hanno ricostruito la loro vita nel reparto di isolamento di San Gimignano.
I detenuti parlano di vero e proprio “metodo sistematico di intervento violento e vessatorio”
«Dai loro racconti – commenta l’associazione - è emerso chiaramente come la vessazione e i trattamenti inumani e degradanti fossero la norma anche prima dell'ottobre del 2018». I detenuti parlano di vero e proprio “metodo sistematico di intervento violento e vessatorio” finalizzato a terrorizzare e addomesticare i detenuti. “Una violenza gratuita e sistematica che non è in alcun modo giustificabile e che i giudici non dovrebbero avere difficoltà a configurare come tortura visto che per poter essere dimostrato il reato di tortura deve essersi manifestato più volte e non in un unico episodio. D'altra parte crediamo che il dibattito sulla tortura dovrebbe essere riaperto al fine di arrivare a contemplare tutte le forme di tortura che vengono perpetrate sulle persone private della libertà, o comunque in situazione di minorata difesa, da parte di pubblici ufficiali (pensiamo ai centri di identificazione per migranti, le rsa per anziani, le caserme)”, commenta
Sandra Berardi, presidente dell’associazione.
A febbraio scorso sono già stati condannati per tortura i 10 agenti penitenziari
Aggiunge che le leggi da sole non bastano, ed “è necessario che il carcere, fin quando esisterà, diventi effettivamente trasparente, accessibile a tutti i difensori dei diritti umani oltre che ai garanti, sì da poter monitorare costantemente il rispetto dei diritti delle persone private della libertà”. Ricordiamo che a febbraio scorso sono stati condannati per tortura i
10 agenti penitenziari del carcere di San Gimignano, compreso il risarcimento di 80 mila euro nei confronti della vittima. Sono coloro che, a differenza dei cinque tuttora sotto processo, hanno scelto il rito abbreviato.
Nella sentenza di condanna viene individuata la fattispecie autonoma di reato. Il giudice ci ha tenuto a sottolinearlo. Non è un dettaglio di poco conto. La legge sul reato di tortura, secondo alcuni, potrebbe indurre a proporne la diversa lettura della norma in termini di fattispecie autonoma di reato. In estrema sintesi, la tortura da parte di pubblici ufficiali è inserita al secondo comma e c’è il rischio che venga considerata come una fattispecie aggravata, invece che come reato autonomo. Questo non è accaduto.
Tutto partì da una lettera di denuncia dei detenuti, testimoni dell’accaduto
Ricordiamo che è stata l’associazione Yairaiha a segnalare per la prima volta i presunti pestaggi grazie a una lettera di denuncia da parte dei detenuti, testimoni dell’accaduto.
Lettera che Il Dubbio pubblicò in esclusiva a pochi giorni dai fatti e con successivi approfondimenti. Dopo la lettera, il Garante nazionale delle persone private della libertà si è subito attivato segnalando il caso al provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria che, a sua volta, ha informato formalmente il Dap di allora. Da lì le interlocuzioni tra quest’ultimo e la direzione dell’istituto penitenziario. Ma c’è voluto un anno, affinché si predisponesse la sospensione degli agenti e i provvedimenti disciplinari, per poi interromperli in attesa dell’esito delle indagini della procura.