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Il marchio era già stato apposto il 30 marzo 2016, il giorno dell’arresto: Fausta Bonino, per l'intero Paese, era “l'infermiera killer”. Un’etichetta atroce che nessuno le ha scucito di dosso per sei lunghi anni, nonostante gli scricchiolii dell’inchiesta e le parole pronunciate dal Riesame già 21 giorni dopo l’arresto, quando la rimise in libertà definendo l’indagine che l’aveva travolta «lacunosa». Ma oggi, dopo una condanna in primo grado all’ergastolo per quattro decessi considerati sospetti, la 58enne è stata assolta dai giudici della Corte di appello Firenze dall’accusa di omicidio volontario plurimo aggravato per le dieci morti avvenute nel reparto di rianimazione dell’ospedale Villamarina di Piombino (Livorno) tra il settembre del 2014 e il settembre del 2015. Il sostituto procuratore Fabio Origlio aveva chiesto la condanna all’ergastolo per nove dei dieci casi contestati, andando, dunque, ad appesantire la prima sentenza, che le attribuiva la responsabilità di quattro di quei decessi. Ma alla fine la Corte ha accolto la richiesta della difesa, condannandola ad un anno e mezzo per il solo reato di ricettazione, relativa ad alcuni medicinali trovati nella sua abitazione durante la perquisizione effettuata al momento del suo arresto, condanna dichiarata sospesa. «Ancora non ci credo - ha commentato la donna in lacrime dopo la lettura della sentenza -. Non potevano accusarmi per delle menzogne dette da qualcuno, non c'era altro». È bastato sentire i nuovi testimoni chiesti dalla difesa, rappresentata dall’avvocato Vinicio Nardo, per ribaltare la situazione e mettere in dubbio quella che per tutti era diventata la “costante Bonino”, ovvero la convinzione che in reparto, nel momento in cui venivano effettuate le iniezioni letali, ci fosse solo lei. «Potrebbe dirsi, banalmente, che è una sentenza che viene riformata sulla base di dati tecnici, che ci sono tutti - ha spiegato il legale al Dubbio -. Ma essendo stata, questa donna, etichettata come un killer, come un mostro, diventa un fatto sensazionale, perché il processo mediatico aveva già emesso la sua sentenza nel momento in cui la etichettava. Il frullatore ha già lavorato per sei anni: Bonino ha perso il lavoro ed è andata in carcere». Insomma, la sentenza era arrivata anni fa, quando per tutti quella donna ha smesso di essere una presunta innocente diventando il prototipo del mostro. La questione è complessa da un punto di vista scientifico, ma ridotta all’osso, ha aggiunto Nardo, è anche semplice: «Il giudice, sulla base di indicazioni date dagli inquirenti e anche dai periti, ha ritenuto che alcuni elementi fossero assolutamente certi, ovvero che la somministrazione del farmaco sia avvenuta con un’iniezione diretta in vena, che si trattasse di un certo tipo di eparina e che questo determinasse la possibilità di calcolare il momento di somministrazione con una relativa approssimazione, arrivando a parlare della “costante Bonino”, perché la mia assistita, secondo quei calcoli, era sempre presente. L’ultimo presupposto dato per certo è che il reparto fosse perfettamente controllato con due porte munite di badge e che quindi non vi fossero dubbi su chi fosse presente - ha sottolineato -. Con più atti di rinnovazione probatoria in appello, fatto straordinario, perché venivamo da un abbreviato secco, abbiamo spiegato che il metodo di somministrazione non è assolutamente certo, che non è sicuro che si trattasse di quel tipo di eparina anziché di un altro e che la porta controllata era solo una e non due e vi era anche una terza porta che portava fuori. Non c’era certezza sulle persone presenti in reparto in quei momenti». Bonino era finita in carcere con l’accusa di aver ucciso 14 pazienti ricoverati a Villamarina iniettando dosi letali di eparina. Secondo l’accusa, avrebbe pianificato e causato la morte di quelle persone mediante l’uso «deliberato e fuori dalle terapie prescritte» di eparina in dosi massicce, tali da «determinare il decesso» provocato da improvvise emorragie. Ad aprile di sei anni fa, però, a farsi venire il primo dubbio fu il tribunale del Riesame, secondo cui l'inchiesta si fondava su indizi né gravi né precisi né concordanti. «Sono vittima di un complotto», disse all’epoca la donna, secondo cui qualcuno aveva costruito «addosso» a lei le prove da consegnare ai Nas. «Mi hanno messo le manette, rinchiusa in una cella, sbattuta in prima pagina come se fossi un mostro - raccontò all’epoca -. E soprattutto ho subito interrogatori durante i quali si è tentato di farmi dire ciò che non era vero e non pensavo affatto». Ma non solo: si tentò di far coincidere il suo profilo con quello di una serial killer e di lei si disse di tutto, perfino che andasse ubriaca al lavoro. Ora di tutto quel fango non è rimasto nulla. Solo le lacrime, questa volta di gioia.