È incostituzionale censurare la corrispondenza tra il detenuto sottoposto al 41 bis e il proprio difensore.
Lo ha deciso la Corte costituzionale con la sentenza n. 18, redattore Francesco Viganò, accogliendo la questione di legittimità sollevata dalla Cassazione. La Corte Suprema, sezione prima penale, ha
sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, in riferimento a taluni articoli della Costituzione, anche in relazione all’art. 6 della Cedu nella parte in cui prevede, per i detenuti sottoposti al 41-bis, la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza, senza escludere quella indirizzata ai difensori.
Il detenuto al 41 bis ha proposto il ricorso in Cassazione
Il ricorso alla Cassazione è stato proposto da un condannato in primo grado alla pena di venticinque anni perché ritenuto esponente di vertice di un’associazione di stampo mafioso, e attualmente detenuto al 41 bis. Con decreto del 12 maggio 2020, il Presidente del Tribunale di Locri aveva
disposto il trattenimento di un telegramma indirizzato dal detenuto al proprio difensore di fiducia. Con ordinanza del 9 luglio 2020 il Tribunale aveva rigettato il reclamo del detenuto avverso tale decreto, ritenendo la sussistenza di un «pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica, connesso all’ambiguità del contenuto della missiva, composta da una serie di periodi non legati da un filo logico in grado di rendere coerente e comprensibile il testo nella sua interezza». Il detenuto aveva quindi proposto ricorso in Cassazione, lamentando l’illegittimità della motivazione con cui il Tribunale aveva confermato il provvedimento. La Cassazione ha accolto il ricorso sollevando la questione di illegittimità costituzionale.
Per l’associazione “Italiastatodidiritto” la censura mortificherebbe solennità e valenza del giuramento forense
L’associazione “Italiastatodidiritto” ha presentato alla Consulta un’opinione scritta in qualità di amicus curiae. Argomentando a sostegno della fondatezza nel merito delle questioni sollevate, ha evidenziato in particolare come «il profilo più grave» della normativa censurata sarebbe costituito dalla presunzione di pericolosità del difensore sulla quale essa parrebbe fondarsi: presunzione che non solo mortificherebbe solennità e valenza del giuramento forense, ma sarebbe anche irragionevole nella misura in cui riguarda la categoria forense e non altre figure, prive di analoghe stringenti prescrizioni deontologiche e professionali, quali i membri del Parlamento, per i quali il visto di censura non opera. La sentenza della Consulta osserva che
il diritto di difesa comprende il diritto di comunicare in modo riservato con il proprio difensore e sottolinea che di questo diritto è titolare anche chi stia scontando una pena detentiva. E ciò anche per consentire al detenuto un’efficace tutela contro eventuali abusi delle autorità penitenziarie. È vero che questo diritto non è assoluto e può essere circoscritto entro i limiti della ragionevolezza e della necessità - purché non sia compromessa l’effettività della difesa - qualora si debbano tutelare altri interessi costituzionalmente rilevanti. Ed è anche vero che i detenuti in regime di 41 bis sono ordinariamente sottoposti a incisive restrizioni dei propri diritti fondamentali, allo scopo di impedire ogni contatto con le organizzazioni criminali di appartenenza.
Per la Consulta la censura della corrispondenza è una irragionevole compressione del suo diritto di difesa
Tuttavia, la Corte Costituzionale ha ritenuto che il visto di censura sulla corrispondenza del detenuto con il proprio difensore non sia idoneo a raggiungere questo obiettivo e si risolva, pertanto, in
una irragionevole compressione del suo diritto di difesa. Da un lato, infatti, il detenuto può sempre avere – per effetto della sentenza della Corte del 2013 – colloqui con il proprio difensore, senza alcun limite quantitativo e al riparo da ogni controllo sui contenuti dei colloqui stessi da parte delle autorità penitenziarie. Dall’altro, il visto di censura previsto dalla norma esaminata dalla Corte opera automaticamente, anche in assenza di qualsiasi elemento concreto che consenta di ipotizzare condotte illecite da parte dell’avvocato. Ciò riflette, ha osservato la Corte, una «generale e insostenibile presunzione di collusione del difensore dell’imputato, finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso». Peraltro, nella motivazione della sentenza viene sottolineato che
le circolari del Dap in vigore dal 2017 avevano interpretato l’attuale normativa escludendo la legittimità di ogni controllo sulla corrispondenza tra detenuti in 41 bis e i difensori, anticipando così gli effetti della pronuncia di illegittimità costituzionale.