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Saviano
«Non più edilizia carceraria, ma meno detenuti. Non l'introduzione di nuovi reati o l'inasprimento delle pene per quelli già esistenti, ma educazione alla responsabilità. Oggi, più che in ogni altro momento della storia, chi fa informazione ha una responsabilità enorme, quella di ragionare insieme a chi legge; quella di non cedere alla scorciatoia del generare panico, dell'accrescere la preoccupazione per rendere il proprio ruolo "fondamentale"». Comincia così il duro atto d'accusa che Roberto Saviano lancia dalle pagine di Sette sul mondo del carcere. Un mondo invisibile, dimenticato, ignorato tanto da chi fa informazione, quanto dalle istituzioni. E non in ultimo dalla società tutta, dal mondo "di fuori". «Si sbatte il mostro in prima pagina senza dare conto delle archiviazioni, delle assoluzioni. Si parla di prescrizione come fosse un regalo all'imputato e non il diritto negato a essere giudicati in tempi umani - scrive Saviano. E siccome il carcere viene raccontato solo per mappare gli arresti, ci si accontenta di sapere che dentro finisce chi ha un debito con la comunità, chi deve pagare, scontare, essere privato della libertà — e in fondo anche di molto, molto altro — senza preoccuparsi mai di come viene impiegato il tempo che dovrebbe servire al reinserimento. Nemmeno so più in che termini parlarne, di carceri. Trovo un muro di gomma inconcepibile spesso anche tra gli interlocutori più attenti». Per raccontare questo muro di gomma, Saviano parte da un caso drammatico. E anzi da un'immagine, che qui assume il valore di «prova» e di testimonianza: è la fotografia della mamma di Antonio Raddi, che nel secondo anniversario della sua morte, il 31 dicembre 2021, ne mostra a sua volta una foto mentre ha gli occhi cerchiati dal pianto. La storia di Antonio, 28 anni, è finita due anni fa nel carcere Le Vallette di Torino. Quando entrò in cella pesava 76 chili. E quando morì, sette mesi dopo, stroncato da una infezione polmonare, ne aveva persi 25. Diceva di non riuscire a mangiare, ma nessuno degli operatori del carcere gli diede credito. La sua vita si è spenta nell'indifferenza, come i tanti detenuti lasciati morire perché sospettati di simulare un malessere inesistente. Si tratta della «indifferenza del rimosso, il rimosso della piaga enorme della tossicodipendenza, il rimosso della sofferenza che questa porta con sé. II rimosso del disagio e del nulla che lo Stato e la comunità fanno per fornire aiuto concreto», scrive ancora Saviano, per il quale il motivo di tanta indifferenza risiede in un vuoto: «Mi accorgo che manca non tanto e non solo la cultura del diritto - dice - ma la cultura dei diritti e cioè la consapevolezza, che dovrebbe essere un dato condiviso, che di diritti non si occupa solo chi non ha preoccupazioni proprie». I diritti riguardano tutti. «Perché un diritto negato diventa automaticamente un privilegio per pochi, o peggio, una concessione»