PHOTO
Il Tribunale di Belvirate era non era veramente un tribunale. Sembrava più un museo, visto che in passato era stato un carcere in epoca austroungarica, con le sue segrete sotterranee collegate al vicino castello veneziano, eretto su un più antico fortilizio bizantino, posto a protezione del lato est del territorio imperiale, a guardia dall’arrivo dei mongoli. Da queste parti li hanno attesi per secoli, a volte sembrava che stessero arrivando, si intravvedevano polveroni all’orizzonte, cavalieri e carri, soprattutto all’imbrunire, giusto per mettere in allarme le sentinelle del castello sul poggio ad est, poi più niente per giorni e giorni, per mesi lo sguardo perso nell’attesa. Non era veramente un tribunale, incastonato com'era tra l'antico Duomo gotico trecentesco, di fronte al piazzale, e il palazzo della Curia, risalente al XVI secolo, a destra, eretto ai tempi della controriforma, con annesso museo medioevale. Alle spalle del tribunale si apriva poi l'ampio piazzale che conduceva al castello con le sue massicce torri quadrate. E infine, a ridosso dell'intero complesso, i vicoli del quartiere ebraico, con ben due sinagoghe, testimonianza di una delle più floride e ricche comunità dell’est. Chiudevano il piazzale a sinistra il palazzo della Dogana, e il vecchio monastero di San Giovanni, che secondo la leggenda non solo sarebbe passato di qua, ma avrebbe anche scritto proprio da queste parti ampi stralci della sua Apocalisse, forse sentendo la presenza del Maligno. Ma non era veramente un tribunale anche perché i capi degli uffici facevano i magistrati "a tempo perso", come un Presidente del Consiglio di qualche anno fa, sorpreso con alcune dame di compagnia nella villa di famiglia, a cui confidava che il ponderoso peso del governo era per lui, in realtà, un ameno passatempo. E facevano i magistrati "a tempo perso" perché la loro occupazione principale era occuparsi delle loro aziende. Sia il Procuratore Malerba sia il Presidente Adduce avevano chi una azienda agricola, chi un resort a quattro stelle con annessa spa, e quindi erano molto più interessati alle vicende delle loro imprese piuttosto che allo stato dei rispettivi uffici giudiziari. Quando arrivai qui, qualche anno fa, trasferito dal Tribunale di Valdifiori nelle serre calabresi come seconda sede, fui ricevuto da entrambi, e mi dissero che potevo fare domanda tranquillamente, perché "si stava bene". Questo mi doveva mettere in allarme: che voleva dire, infatti, che “si stava bene”? Si riferiva alla vita? Al lavoro? Al rapporto con gli avvocati? Può esistere un luogo di lavoro di giudice dove “si sta bene”? O invece questo lavoro è per definizione un lavoro dove “si sta male”, alle prese com’è con i mali della vita, decisioni, anche la più banale, sempre impegnativa e difficile perché riguarda la vita degli altri? Invece non ci feci caso, e ammaliato dalla bellezza del posto, ad un passo dalle montagne innevate dell’est, estrema propaggine verso i sempre attesi barbari, decisi di stabilirmi proprio qui, tra i vicoli del quartiere ebraico. Non immaginavo che barbari erano già arrivati, e si erano già da tempo impossessati della città. Qui lavorava da sempre il giudice Bretella. Questo non era il suo vero nome, ma il suo soprannome, poiché aveva una vera passione per le bretelle, che ostentava in vari colori e fantasie. Ne aveva, si diceva, centinaia. Era costui un vecchietto magro e leggermente ricurvo, naso aquilino, su cui poggiavano degli occhialetti tondi a molla, molto retrò, capelli bianchi tirati all’indietro, il volto scavato incorniciava degli occhietti piccoli e di un celeste slavato. Vestito sempre con completi stile anni ’30 del 1900, a passeggio sempre con l’inseparabile bastone col pomello argentato, abitava con l’anziana governante, ed era conosciuto da tutti in città, oltre che per le doti di fine giurista, proprio per la sua passione per il collezionismo. Quelle che erano note e palesi erano due: bretelle e francobolli. La sua bella casa, un attico in un palazzetto dell’ottocento nel centro moderno, limitrofo alla centralissima piazza della Repubblica, aveva una stanza adibita ad esposizione, con mobili alle pareti dalle ante trasparenti dove alloggiavano infiniti album di francobolli divisi e sistemati per provenienza geografica, mentre le bretelle erano in un luogo più riservato, prossimo alla capiente cabina-armadio. Una volta che lo andai a trovare, mi mostrò orgoglioso l’intera collezione delle une e degli altri. Per i francobolli era in grado di precisare provenienza ed epoca di alcuni pezzi pregiati, il cui costo, a me non appassionato del settore, mi parve esorbitante. In giro, però, si parlava di un’altra passione che lo rendeva strano: collezionava strumenti di tortura, trovati in giro per il mondo, e che secondo qualcuno erano collocati in alcuni scantinati del palazzo, adibiti a esposizione in un luogo che poteva essere considerata una camera degli orrori della storia giudiziaria. Una volta, visti i buoni rapporti di colleganza, gli chiesi di vederla, ma lui negò di possedere una siffatta collezione. Eppure qualcuno parlava della “Sedia di Giuda”, o della “Sedia delle streghe”, degli “Strappaseni”, della “Vergine di ferro”, e di tutta una serie di diavolerie usate dall’Inquisizione per strappare confessioni. “Dicerie”, mi disse, chi mai collezionerebbe roba del genere? Se vuoi un giorno ti mostrerò invece la mia collezione di pistole moderne, ne ho varie decine, e alcune di cui vado molto fiero, soprattutto alcuni modelli della seconda guerra mondiale, tra cui una Luger cal.9 appartenuta ad un ufficiale nazista, e una Walter PPK simile a quella usata da James Bond nei romanzi di Fleming”. “Si mi piacerebbe molto”, risposi convinto, le pistole erano una mia passione fin da quando frequentavo il poligono di tiro, quando ero giù in Calabria, anche se non fino al punto da collezionarle. Un giorno, tuttavia, successe l’imprevisto. Alcuni pentiti, che da mesi stavano rivelando una serie di particolari su alcune assoluzioni sospette dei giudici del Tribunale di Belvirate, avevano tirato in ballo il giudice Bretella e alcuni suoi provvedimenti. Ebbene, le osservazioni, le intercettazioni e le rivelazioni di alcuni pentiti avevano condotto gli inquirenti a sospettare che quei provvedimenti di assoluzione fossero stati oggetto di compravendita da parte del giudice. Il suo arresto, in virtù di inequivocabili riprese dove si notavano gli scambi e i passaggi di buste negli stessi uffici giudiziari, e in particolare nella stanza del giudice incriminato, fu un vero terremoto, anche se qualcuno ricordava che alcuni pentiti di camorra già nei primi anni 2000 avevano parlato di scambi di favori, ma non erano stati ritenuti credibili. L’ambiente era scosso, avvocati e magistrati si trincerarono dietro le solite dichiarazioni di circostanza circa “la necessità da parte dei cittadini di continuare a mantenere la fiducia nelle istituzioni così gravemente colpite, e considerare il lavoro onesto e indefesso di tanti professionisti, magistrati, avvocati e cancellieri, che ogni giorno fanno il loro lavoro con onestà e dedizione”. Sarà indubbiamente così, ma al Tribunale di Belvirate quello che era successo non sembrava proprio un’eccezione. Qualche anno addietro, infatti, erano stati arrestati, sempre per corruzione, alcuni magistrati della Procura, che in combutta con un giudice per le indagini preliminari, arrestavano cittadini innocenti per poi chiedere denaro per la revoca degli arresti in carcere. Gli inquirenti, anche qui grazie a pentiti e intercettazioni, avevano scoperto che i magistrati corrotti avevano un vero e proprio tariffario delle scarcerazioni, che dipendeva dal tipo di misura cautelare e dalle possibilità economiche del malcapitato, per lo più un imprenditore o un facoltoso professionista.Un'altra modalità estorsiva escogitata dal gruppetto di malavitosi in toga era far giungere tramite un avvocato compiacente alla vittima una copia informale di una ordinanza di custodia cautelare, dicendo “vedi, domani devi essere arrestato. Se paghi 10.000,00 euro questa la stracciamo”. E questi fatti erano andati avanti per anni, nella assoluta, colpevole inconsapevolezza dei capi degli uffici. A Belvirate, quindi, secondo me, c’erano parecchi magistrati collezionisti, ma non collezionisti di bretelle, francobolli, di armi, di orologi o quant’altro, no: collezionisti di soldi, che infatti erano poi stati trovati nelle loro abitazioni, stipati nei luoghi più impensati, in notevole quantità. Al giudice Bretella, ad esempio, molti pacchi di banconote erano state trovati all’interno degli strumenti di tortura, quasi come se il denaro, lo sterco del diavolo, e gli strumenti fossero accomunati nella diabolicità della tentazione alla quale il giudice aveva ceduto, e nella sua nemesi punitoria. Mi sembrava quasi di vedere in questo accostamento quello che Kafka descriveva nella sua colonia penale, ovvero come l’erpice che scrive la pena sulla pelle del condannato, fino a determinarne la morte, così qui il denaro nascosto negli strumenti di tortura finiva con l’anticipare per il suo possessore l’infausto esito detentivo e la sua moderna gogna mediatica, provocato dal suo illecito procacciamento e per il mercimonio della funzione giudiziaria di cui Bretella si era macchiato. Si erano al contempo aperte delle indagini ministeriali, per verificare come era potuto accadere che questi fatti gravissimi avvenissero senza che alcuno denunciasse alcunché. Anche io fui sentito da un funzionario, forse si riteneva non necessario che ad istruire la pratica fosse un magistrato. Devo dire che mi feci un po' prendere dal nervosismo, e fui molto brusco con il povero incaricato. Quando mi fu chiesto se avevo sentito dire qualcosa su queste vicende, sbottai “Ma mi scusi, lei dice sul serio? Lei mi chiede se avessi sentore di ciò che accadeva? Certo che avevo sentore, e che avrei dovuto fare? Denunciare le voci? Il sentito dire? Per essere denunciato per qualunque e pagare anche cospicui risarcimenti? O non siete voi, qui al Ministero, ad avere in tutti questi anni ignorato tutto ciò che accadeva all’ombra del Castello, tra capi degli uffici promossi nonostante aziende e interessi economici rilevanti, a volte condotte da prestanomi; non li avete nominati voi? E come dovevano interessarsi degli uffici se avevano da badare ai loro interessi imprenditoriali? Costoro, affaristi senza scrupoli, hanno prosperato nell’ignavia e nel disinteresse dei magistrati cd. “perbene”, che sentivano la puzza, ma si giravano dall’altra parte. Ma come avete fatto? Con tutti i procedimenti che si aprivano in tre o quattro procure competenti per territorio, le indagini e i rinvii a giudizio che puntualmente si leggevano anche sui giornali, a fare finta che non accadesse niente, quando la giustizia, una giustizia con la g minuscola e mortificata, era oggetto di mercimonio e corruttela? Dove eravate, voi che avete consentito per vent’anni a questi cialtroni di spadroneggiare? Non li avete messi voi nel posto che hanno oltraggiato con le loro condotte? Lo sapete che parenti e sodali sono tutti ben inseriti nelle amministrazioni locali? Che loro congiunti figurano nelle municipalizzate e in tutto il territorio del circondario del tribunale? E non potreste accertarlo da soli di chi si tratta, facendo partire accertamenti e indagini a tappeto acquisendo per prima cosa informazioni sui processi pendenti, in modo almeno da allontanarli dagli uffici pubblici trasformati in studi professionali con parenti e amici? E ve lo dovrei dire io? Addio, non ho altro tempo da perdere …Vi auguro buona fortuna con le vostre indagini!”. Alla fine, se non me ne fossi andato sbattendo la porta, avrei potuto avanzare una proposta, avrei suggerito di sopprimerlo questo Tribunale, e fargli riprendere le sue antiche funzioni di museo, magari allocando in un ala dello stesso palazzo l’esibizione degli strumenti di tortura sequestrati al giudice Bretella, e nello stesso tempo cominciare a scegliere come capi degli uffici magistrati normali, con una storia di dedizione al lavoro, piuttosto che capi degli uffici, “a tempo perso”, scelti solo perché amici delle persone giuste, che in quel momento hanno il potere di decidere. Attendiamo tutta una vita i barbari, abbiamo la guardia alta verso il nemico all’orizzonte, e spesso non ci accorgiamo che questo è già penetrato nella nostra cittadella, ce l’abbiamo affianco, davanti, ci andiamo a pranzo o a cena, ci scherziamo prendendo il caffè in ufficio, mentre questi, silenzioso come un topo in un sotterraneo, rode le fondamenta dell’edificio dei nostri valori e del nostro lavoro, fino a farlo crollare, seppellendoci tutti. Ogni riferimento a fatti reali è puramente casuale, così come eventuali riferimenti a fatti di cronaca effettivamente accaduti. Roberto Oliveri del Castillo Magistrato della corte d’appello di Bari, ex gip a Trani