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Angelo Burzi
«Il peculato è per un amministratore pubblico l’accusa più infamante, mi sento oppresso». Era l’11 maggio 2015, Angelo Burzi, fondatore di Forza Italia in Piemonte ed ex capogruppo di Progett’Azione, parlava per la prima volta nell’aula 3 del Palazzo di Giustizia di Torino, dichiarandosi innocente. Parole che sei anni dopo ha ripetuto, affidandole a delle lettere scritte prima di impugnare la pistola e togliersi la vita. «Si è ucciso perché si sentiva innocente, perché lo era», ha raccontato ieri a Repubblica Giovanna Perina, sua moglie. Che Burzi ha difeso dal suo ultimo gesto, avvisando i carabinieri poco prima di premere il grilletto, per evitare che fosse lei a trovare il suo corpo. La vita dell’ex politico è finita così, travolta da una vicenda durata dieci anni, che lo ha visto prima uscire assolto, poi condannato e poi, dopo un annullamento in Cassazione con rinvio, di nuovo condannato in appello, dove i giudici gli avevano inflitto tre anni di carcere per la presunta Rimborsopoli piemontese. Una condanna arrivata lo scorso 14 dicembre, dieci giorni prima della sera della vigilia di Natale, giorno in cui si è tolto la vita con un colpo di pistola alla tempia. Burzi, tra i protagonisti della scena politica piemontese, liberale vecchio stampo, aveva 73 anni anni e alle spalle un passato da protagonista nella storia del centrodestra della sua regione. Prima di premere il grilletto, ha composto il 112, spiegando le sue intenzioni e pregando i carabinieri di avvisare la moglie, che era a cena da alcuni parenti. Poi si è chiuso in bagno, dove si è tolto la vita. Nelle lettere, indirizzate una alla moglie, una alle figlie e una ai cinque amici più cari, l’ex politico avrebbe fatto esplicitamente riferimento alla condanna che aveva ricevuto in appello, la più alta tra quelle decise dai giudici. Tra i destinatari delle missive anche Roberto Cota, ex governatore del Piemonte. «Angelo - ha spiegato al Dubbio - nelle sue lettere ha ricostruito la vicenda giudiziaria che lo ha colpito. Il suo sentimento era quello di una persona innocente che si sentiva vittima di un’ingiustizia. Non si dava pace per l'iniquità con cui è stata gestita la vicenda, una delle pagine più incredibili della recente storia giudiziaria». Una vicenda strana, secondo l’ex governatore, anche per la diversità di trattamento riservata ai politici di centrosinistra, tutti assolti, contrariamente a quelli di centrodestra, che invece hanno visto la vicenda trascinarsi per anni e anni. Cota ha dunque chiesto di istituire una commissione d’inchiesta per fare chiarezza sulla vicenda. Una vicenda che ha travolto un uomo che «non era debole - ha aggiunto ai microfoni di Radio Radicale - , era molto forte, ma è stato evidentemente schiacciato». Il contenuto di quelle lettere, ha deciso ora la moglie, verrà reso pubblico dopo i funerali. Un modo per raccontare quel calvario giudiziario il cui peso non lo ha mai abbandonato. Subito dopo la sua morte si era diffusa la voce che a spingerlo all’estremo gesto fosse stata la notizia di una malattia. Ma a preoccuparlo, ha spiegato la moglie, non era affatto quello: «Non c'entra nulla con la scelta di morire», ha chiarito. Una malattia ancora tutta da accertare e comunque meno grave di quella condanna. «Una condanna politica - ha evidenziato la donna - che gli è piovuta addosso senza colpe. Lui era innocente. E lo ripeteva. È stato perseguitato per quasi dieci anni». Burzi era dunque «profondamente convinto dell'ingiustizia subita. E poi lo feriva anche il diverso trattamento: alcuni imputati erano stati trattati in un modo, altri in modo diverso. Le sentenze non erano simili, cambiavano a seconda dei tribunali. Ma come è possibile che ci sia questa disparità? Che giustizia è? - si è chiesta -. Era una persona intelligente, molto intelligente, avesse voluto arricchirsi avrebbe trovato il modo di farlo. E non lo ha fatto. Non ha sfruttato la carriera politica per arricchirsi. Era una persona onesta, credeva nella politica». Burzi non era accusato di acquisti pazzi o personali, ma per essersi fatto rimborsare 3600 euro per la realizzazione di un video per la campagna elettorale del 2010 e circa 10mila euro in pranzi e cene. Spese che l’ex capogruppo considerava di rappresentanza, come i pranzi per gli ospiti in occasione di incontri politici e istituzionali, ma che per i giudici erano illegittime. «Da uomo orgoglioso qual era - ha commentato Enzo Ghigo, presidente della Regione dal 1995 al 2005 - è stata sicuramente dolorosa per lui la vicenda che lo ha coinvolto in un periodo storico in cui, con indubbie storture commesse da alcuni, anche molti politici retti e onesti sono stati travolti, convinti in buona fede, secondo le regole allora vigenti, di non aver mai commesso illeciti». E ne era convinta anche la presidente del collegio che per primo giudicò il caso, Silvia Bersano Begey, tra le persone che Burzi ha ringraziato nelle sue lettere. Secondo la giudice, infatti, mancava la prova che il politico avesse «elementi per dubitare della natura istituzionale e di rappresentanza delle spese le cui pezze giustificative gli venivano prodotte in allegato alla richiesta di rimborso» dai consiglieri del gruppo da lui guidato. Si trattava, essenzialmente, di spese “ambivalenti”, «in ordine alle quali non vi sono elementi perché il capogruppo Burzi potesse ritenere non fossero ascrivibili, come dichiarato dal consigliere, a motivi politico-istituzionali e quindi “di rappresentanza». Insomma, si legge in quella sentenza, «egli non ha autorizzato “di tutto” indiscriminatamente, poiché si è trovato di fronte a spese praticamente tutte rimborsabili, ancorché in astratto, perché riconducibili a spese che da sempre venivano ritenute cli rappresentanza». E proprio la verifica delle spese da lui stesso sostenute «induce a ritenere che abbia, con riferimento a sé per primo, inteso le spese cosiddette di rappresentanza nel senso previsto dalla normativa». Erano molte le spese pagate personalmente, proprio in quanto non ritenute ricollegabili al suo ruolo istituzionale. Spese per le quali Burzi aveva portato in aula i suoi estratti conto, dai quali emergevano oltre settemila euro di ristoranti e cinquemila di cellulari che non ha mai accollato alle casse pubbliche. «Sono sempre andato alla ricerca assoluta della differenza tra pubblico e privato e ho sempre tenuto a distinguere le spese personali da quelle sostenute per l’attività politica e per il funzionamento del gruppo consiliare - aveva spiegato durante l’interrogatorio -. Non inserivo caffè o pranzi da solo, né di gruppo, ma solo colazioni di lavoro in cui io ero sempre presente e incontravo una o al massimo due persone. Non perché non fosse legittimo, ma perché non era mia abitudine».