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Milano
Otto dicembre scorso: Guido Salvini, giudice per le Indagini Preliminari in forza a Milano, scrive per Il Dubbio un circostanziato articolo, con espliciti riferimenti, fatti, nomi e cognomi, e spiega cosa è accaduto nell’ufficio del Gip della sua città nella stagione di “Mani Pulite”. Per riprendere l’efficace sintesi giornalistica: “Il pool escogitò il semplice ma efficace trucco di un ‘registro’ con lo stesso numero per tutti i reati che era così di competenza di un solo Gip: Italo Ghitti”. Sempre Salvini racconta come un fascicolo, in questo modo, con questo “trucco” gli viene sottratto; stessa cosa accade ad altri Gip, il tutto con la fattiva copertura e tolleranza dei Capi dell’ufficio: “Non era il tempo di seguire la strada giusta, ma di adeguarsi al mainstream”. In guerra e in amore tutto è lecito, si dice. Ma appunto: in guerra e in amore; amministrare la giustizia, applicare le leggi, non rientra nelle pratiche belliche, e neppure in quelle amorose, checché ne possa pensare qualcuno. Ad ogni modo: reazioni? Sì, qualche isolata voce, presto silenziata. Per il resto, sostanziale fastidio, gelida indifferenza. Un ulteriore passo indietro. A metà novembre Nino Di Matteo, magistrato attualmente membro del Consiglio Superiore della Magistratura, rilascia un’intervista a La7. Confessa un timore: “che si siano formate anche al di fuori o trasversalmente alle correnti, delle cordate attorno a un procuratore o a un magistrato particolarmente autorevole, composte da ufficiali di polizia giudiziaria e da esponenti estranei alla magistratura che pretendono, come fanno le correnti, di condizionare l’attività del Consiglio superiore della magistratura e dell’intera magistratura… Con l’appartenenza alle cordate vieni tutelato nei momenti di difficoltà, la tua attività viene promossa, vieni sostenuto anche nelle tue ambizioni di carriera e l’avversario diventa un corpo estraneo da marginalizzare, da contenere, se possibile da danneggiare… La logica dell’appartenenza è molto simile alle logiche mafiose, è il metodo mafioso che ha inquinato i poteri, non solo la magistratura”. Questa situazione dove (e chi) l’ha evocata e descritta prima di Di Matteo? Si deve recuperare un libro di grande successo, “Il sistema”, lunga conversazione tra l’ex magistrato Luca Palamara e Alessandro Sallusti: “…Le spiego una cosa fondamentale per capire che cos’è successo in Italia negli ultimi vent’anni”, dice Palamara. “Un procuratore della Repubblica in gamba, se ha nel suo ufficio un paio di aggiunti e di sostituti svegli, un ufficiale di polizia giudiziaria che fa le indagini sul campo altrettanto bravo e ammanicato con i servizi segreti, e se questi signori hanno rapporti stretti con un paio di giornalisti di testate importanti – e soprattutto con il giudice che deve decidere i processi, frequentandone magari l’abitazione…Ecco se si crea una situazione del genere, quel gruppo e quella procura, mi creda, hanno più potere del Parlamento, del premier e del governo interno. Soprattutto perché fanno parte di un ‘Sistema’ che lì li ha messi e che per questo li lascia fare, oltre ovviamente a difenderli”. Nella sostanza le affermazioni di Di Matteo e Palamara si possono sovrapporre, due “opposti” che coincidono. Ma Di Matteo dice anche altro, nel libro “I nemici della giustizia”, scritto con Saverio Lodato. Quando si arriva alle pagine 75 e 76 si può leggere: “…Una cordata sorta attorno a qualche magistrato, di solito un importante procuratore, che ha saputo acquistare nel tempo, e spendere, la sua autorevolezza e il suo prestigio per occupare spazi sempre più ampi di potere dentro e fuori la magistratura…” con lo scopo “di fidelizzare altri colleghi, alti esponenti delle forze dell’ordine, acquisendo un potere tale da riuscire a influenzare scelte e nomine all’interno della magistratura e persino delle forze di polizia. Cordate, non più correnti…”. Ora idealmente si può far scendere idealmente in campo un altro personaggio, l’ex magistrato Ilda Boccassini. Ha scritto “La stanza numero 30. Cronache di una vita”, di cui molto si è parlato e scritto, più che altro per il quarto capitolo: il racconto di una liason con Giovanni Falcone. Capitolo che fa perdere di vista il cuore dei problemi che questo libro pone. Perché in fin dei conti, cos’abbiano combinato sono affari di Boccassini e Falcone; si può al massimo eccepire che questa storia poteva restare nel cono d’ombra dove era relegato, conosciuta da pochi. Ma è la sostanza delle questioni che si è persa di vista. La sostanza è il racconto di anni e anni di storia della magistratura, dei magistrati, del loro operare: il loro letterale trescare per acquisire e difendere postazioni di potere e carriera; le spartizioni, i boicottaggi, i servilismi: dal libro di Boccassini insomma, emerge un quadro desolante e desolato della magistratura, e di uffici giudiziari particolarmente importanti: quelli di Milano, Roma, Palermo, Caltanissetta. Del lato meschino e vanesio di magistrati ed ex magistrati famosi; i metodi di spartizione per l’attribuzione dei vertici apicali della magistratura da parte del Consiglio Superiore della Magistratura. Insomma: un contesto, una “scena” e tanti retroscena, deprimenti. Significative queste ‘concordanze’ di personaggi così diversi, perfino opposti. Tutto ciò aggravato dal fatto che tutto ciò sembra scivolare come acqua su pietra liscia. Si può infine segnalare un’ulteriore, non meno grave “indifferenza”, che evidentemente (mal)cela una diffusa ostilità: verso i sei referendum per una giustizia più giusta promossi da Partito Radicale e Lega. Hanno superato il primo ostacolo, il vaglio della Corte di Cassazione. Ora la parola spetta alla Corte Costituzionale; non potrà falcidiare l’intero pacchetto; potrà dichiarare che qualche quesito non può essere sottoposto a referendum popolare, ma bocciarli tutti e sei non è cosa. Dunque, se non saranno sciolte le Camere (evento non meno improbabile), a primavera ci si pronuncerà su importanti questioni di giustizia e di come la si vuole amministrare. Che cosa attendono i mezzi di comunicazione, e in particolare quello che dovrebbe essere il servizio pubblico radio-televisivo, ad allestire spazi di informazione, confronto e dibattito tra sostenitori e avversari delle referendarie, non si capisce (o al contrario: lo si comprende bene). ‘Conoscere per deliberare’ è uno dei precetti di Luigi Einaudi: diritto alla conoscenza presupposto senza il quale non è data una vera democrazia. Curioso, ma anche indicativo, che filosofi, giuristi, commentatori, dedichino tempo ed energie nella denuncia di rischi e pericoli più supposti che reali per la democrazia, in Italia, in Europa, nel mondo, a proposito di una Pandemia che sconvolge il pianeta; e non una briciola di attenzione sul fatto che una questione essenziale come la giustizia e il modo in cui si amministra è argomento tabù: è scattato un verboten a cui pochi volenterosi vogliono e sanno sottrarsi, rapidamente, implacabilmente, silenziati: ridotti come il protagonista del celebre dipinto del norvegese Edvard Munch.